fashion victims
11 Aprile 2019   •   Raffaella Celentano

Fashion Victims: il documentario sulle schiave della moda

«Al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina è stato presentato il documentario Fashion Victims, che racconta il lato oscuro del fashion system internazionale»

Si intitola Fashion Victims il documentario che sta facendo discutere l’industria della moda, e non solo. Realizzato da Chiara Cattaneo e Alessandro Brasile, racconta la vera storia delle schiave della moda, le operaie (perché sono quasi tutte donne) che ogni giorno lavorano per produrre e confezionare molti dei nostri abiti.

Il documentario è stato girato nel Tamil Nadu, regione dell’India meridionale da cui arriva la maggior parte del filato che serve il mercato internazionale della moda, dal fast fashion ai grandi brand del lusso. Ed è qui che milioni di donne, la maggior parte delle quali giovanissime, lavorano ogni giorno affrontando situazioni drammatiche, al limite della sopravvivenza. Le loro storie sono costellate di turni che arrivano fino a diciotto ore consecutive, infortuni, violenze di vario genere e (ovviamente) una paga insufficiente.

Spaccato di vita

I due autori del documentario Fashion Victims non sono documentaristi, ma si sono ritrovati entrambi a lavorare sulla filiera tessile indiana: lui, fotografo, aveva scattato alcuni servizi insieme a delle ONG locali, mentre lei da dieci anni si occupa di cooperazione nel tessile in quella zona. E sono state proprio le ONG presenti nella zona a chiedere loro di far conoscere questa storia, di cui si sa ancora troppo poco. Infatti, i sistemi di certificazione si concentrano o nella fase iniziale della filiera come la coltivazione o su quella finale del confezionamento, che sono le più tracciabili. Al contrario quello della filatura è un segmento molto complesso dal punto di vista logistico, difficile da tracciare. Ed è proprio su questa parte della filiera che si concentra il loro documentario, presentato a Milano lo scorso 28 marzo.

Le ragazze intervistate hanno parlato delle loro condizioni lavorative: provengono tutte da zone povere e rurali, dove non ci sono fonti di reddito alternative, soprattutto a causa del persistente declino dell’agricoltura. Le operaie non hanno altra scelta se non quella di andare via di casa per lavorare nelle fabbriche: vengono così “arruolate” da intermediari che le prelevano dai loro villaggi e le smistano nelle varie strutture. In cambio dei loro servizi, questi intermediari ricevono una percentuale, che le aziende trattengono dal salario delle lavoratrici. Le ragazze lavorano e vivono negli stabilimenti, svolgendo turni estenuanti, mangiano e dormono in ostelli annessi alle fabbriche. Non possono uscire né tanto meno far visita alle famiglie. A fine mese non ricevono lo stipendio, ma i genitori vanno a ritirare il denaro e a loro resta soltanto il minimo necessario per sopravvivere.

Sumangali scheme

In casi ancora più gravi queste ragazze vengono reclutate e assunte attraverso il cosiddetto Sumangali scheme, secondo il quale devono lavorare da tre a cinque anni e, solo al termine del periodo stabilito, potranno ricevere il pagamento cumulativo di quanto guadagnato. La maggior parte di queste fashion victims sceglie questa vita non solo per prendersi cura dei genitori o dei fratelli più piccoli, ma soprattutto nella speranza di una emancipazione e di contrarre un buon matrimonio. Nel sud dell’India, infatti, è ancora in vigore il sistema della dote e il matrimonio è un evento molto costoso per le famiglie. Così accade che le ragazze finiscano nelle filande per “guadagnarsi” la dote, lavorando per ottenere il denaro per sposarsi. Il termine Sumangali, infatti, vuol dire “sposa felice”.

Eppure, non sempre questo succede. Gli autori hanno, infatti, raccontato di ragazze che alla fine dei cinque anni di lavoro non hanno ricevuto nessun tipo di pagamento. Altre ancora sono state più sfortunate: non sono rari i casi di incidenti sul lavoro o addirittura di morti premature, dovute alle condizioni in cui queste ragazze sono costrette a vivere. In alcune strutture ci sono stati perfino casi di violenze su minori, che si sono concluse anche in maniera tragica. Chiara e Alessandro preferiscono, però, non indugiare sui casi più gravi poiché l’intento del documentario, per loro, non è solo quello di denunciare lo sfruttamento dei lavoratori, ma di stimolare una riflessione più approfondita: non sono gli indiani che sfruttano le operaie, è il sistema del fast fashion che non funziona né per chi ci lavora né per l’ambiente e per i consumatori.

Immagine in evidenza: Fashion Revolution

Raffaella Celentano