27 Aprile 2016   •   Snap Italy

Thermocompost: riciclaggio, compostaggio e bioenergia

«Il ThermoCompost è un impianto che genera energia biotermica a partire dal riciclaggio e compostaggio dei sottoprodotti agricoli e forestali. Abbiamo intervistato il suo principale promotore in Italia, Andrea Brugnolli»

Ogni giorno, enormi quantità di ramaglie e potature vengono prelevate da boschi, frutteti, parchi e giardini per fare pulizia ed evitare il propagarsi di incendi. Nella maggior parte dei casi questi sottoprodotti agricoli e forestali sono trattati come rifiuti: dopo esser stati accumulati e tritati vengono bruciati, generando inquinamento, effetto serra e polveri sottili. Se riciclati e riutilizzati, però, sono materiali che assumono un valore molto importante sia per l’autoproduzione di energia biotermica che per la coltivazione. Le tecniche che lo consentono hanno origini antichissime, e negli anni sono state riprese e perfezionate in tutto il mondo.
In Italia, l’Associazione T.E.R.R.E. è promotrice di incontri, workshop e corsi di formazione volti a diffondere un sistema ecologico ed economico che, proprio a partire dal riutilizzo di queste ramaglie, genera risorse bioenergetiche per lungo tempo a un costo veramente contenuto. L’impianto si chiama ThermoCompost, è auto-costruibile e consente la produzione sia di energia biotermica, sia di humus per il nutrimento del terreno.
Andrea Brugnolli, tecnico di energie rinnovabili e risparmio energetico e presidente dell’Associazione Terre, è colui che ha intuito, riscoperto, approfondito e coniato il nome di questo impianto. Oggi si occupa di diffondere e insegnare teoria e pratica del ThermoCompost nell’ambito della sua realtà associativa, che si occupa di permacultura in tutte le sue forme. Per capire meglio di cosa si tratta, come funziona e quali sono i vantaggi del ThermoCompost, abbiamo deciso di contattarlo ed approfondire il discorso.

Tu sei la persona che ha riscoperto in Italia questa antica tecnica, promuovendola e dandole il nome di ThermoCompost. Ma le sue origini risalgono a molto tempo fa. Ripercorriamole…

Già dal XIV secolo, i Templari avevano lasciato a vari monaci cistercensi delle indicazioni su come eseguire il recupero di ramaglie e potature per poterne ricavare un humus vivente, sostanza organica che, una volta distribuita sul suolo, ne aumentava il sistema immunitario difendendo le piante e i loro frutti. Partire dalla cura della terra per arrivare alla cura dell’uomo, questo era il fine.
Questa tecnica, le cui prime testimonianze si trovano in Spagna, prevedeva la tritatura di ramaglie fresche in materiale molto fino, che poi veniva immerso in grandi vasche e trattato secondo fasi che seguivano i cicli lunari, e successivamente un trattamento anaerobico e poi uno aerobico. L’humus che ne veniva fuori consentiva di coltivare senza acqua, perché creava sul suolo un ecosistema analogo a quello del bosco.
Negli anni Settanta del secolo scorso, i manoscritti che tramandavano queste tecniche vennero ripresi e approfonditi da un certo Jean Pain, l’inventore franco-svizzero che ne potenziò e ottimizzò la gestione delle risorse. I suoi studi e le sue migliorie introdussero la possibilità di sfruttare le ramaglie non solo per fertilizzare e curare il terreno, ma anche per il riscaldamento dell’acqua, produrre biogas per la cucina, l’autotrazione e la produzione di elettricità. Grazie a questa scoperta, Jean Pain divenne completamente autosufficiente e dimostrò che si poteva estrarre maggiore energia dalle ramaglie di legna in quel modo piuttosto che bruciandole.
Negli anni, queste tecniche si sono diffuse in tutto il mondo e oggi vengono utilizzate in Germania, Olanda, America, Canada e si stanno diffondendo anche qui da noi, in Italia.

In che modo sei arrivato alla riscoperta e all’ideazione del Thermocompost? Come viene diffuso oggi sul territorio italiano?
Qualche anno fa, era circa il 2010, lavoravo presso l’Ecovillaggio Solare di Alcatraz, in Umbria, dove Jacopo Fo gestisce un terreno di 170 ettari per il 90% costituito da boschi. Il lavoro di smaltimento e pulizia di questi terreni ci restituiva tanto materiale legnoso, grandissime quantità di ramaglie e scarti che spesso cippavamo con grandi macchine. E’ capitato di accatastare grandi cumuli di cippato, senza utilizzarlo.

Con il tempo e con le piogge ci rendemmo conto che questo grande cumulo organico aveva innescato un meccanismo di produzione di calore. È un processo naturale: si può provare a sentire il calore dentro un piccolo cumulo di erba fresca appena tagliata.
Dopo questa intuizione decidemmo di approfondirne le dinamiche e ricerca dopo ricerca capimmo che anche altri l’avevano messa a punto: scoprimmo Jean Pain, il suo lavoro, e poi le più recenti attività di “Native Power”, l’associazione tedesca con cui tutt’ora progettiamo e sviluppiamo impianti. In Italia, io stesso ho coniato il termine ThermoCompost e sono presidente dell’associazione Terre, che si occupa di promuovere la permacultura in tutti i suoi aspetti.

A chi è rivolto, precisamente, questo sistema? Quali sono i suoi principali obiettivi e vantaggi?
Una volta che se ne acquisiscono le tecniche di realizzazione, questo impianto può essere autoprodotto a costi molto contenuti. È rivolto a chiunque abbia un minimo di spazio esterno, diciamo una superficie minima di 4 metri quadri. Quindi ad aziende agricole, centri sportivi, abitazioni, agriturismi,scuole, case, serre, piscine. Il suo obiettivo principale è il recupero dei sottoprodotti della filiera agricola e forestale sia per migliorare il suolo, rafforzare le piante e avere dei prodotti più sani, sia per l’autoproduzione di energia biotermica e il riscaldamento di acqua sanitaria, case e serre. Se l’impianto viene realizzato bene, la sua durata è piuttosto lunga, va dai 12 ai 18 mesi.

Come accennavo, i sottoprodotti agricoli sono ancora considerati rifiuti: una volta raccolti vengono molto spesso bruciati generando inquinamento, contribuendo ai cambiamenti climatici. Tuttavia, se questi materiali si riciclano e dalla combustione si passa al compostaggio, il valore finale che se ne trae è nettamente superiore a quello del prodotto iniziale, e i costi di investimento si recuperano in un anno e mezzo. Inoltre è economico, modulabile, autocostruibile, le competenze tecniche che richiede non sono enormi. Una volta realizzato e collegato agli impianti sanitari, se vogliamo potenziarlo non dobbiamo cambiarlo, ma implementarlo.

Arriviamo alla pratica: in breve, come si costruisce un ThermoCompost?
La prima cosa che si fa, ovviamente, è il recupero delle ramaglie, che può avvenire in modi diversi: un’azienda agricola utilizza i propri scarti; i privati, invece, si rivolgono agli enti della propria zona atti alla gestione delle potature. Sono scarti raccolti quotidianamente in grandi quantità e poi cippati per fare spazio, quindi possono essere acquistati già pronti per il compostaggio.
Una volta recuperate e cippate le ramaglie, si inizia a metterle in opera: il materiale viene posato in grandi contenitori di forma cilindrica realizzati con dei grigliati metallici, in seguito viene disposto a vari strati spirali formate con dei tubi di irrigazione molto economici, e umidificato gradualmente per tre giorni per creare le condizioni microbiologiche fondamentali per la produzione del calore. Questo è il ThermoCompost: un volume cilindrico dove, come in una torta, ogni 50 centimetri anziché la marmellata c’è una spirale di tubi collegati  in modo che l’acqua possa scaldare al meglio. L’acqua così riscaldata viene è immagazzinata in un serbatoio chiamato puffer e una centralina, quando rileva che la temperatura è ai giusti livelli, fa partire la pompa. In questo modo si accumula energia, la si stocca nel serbatoio e la si preleva sotto forma sia di acqua che di riscaldamento.

Da un lato è una tecnica semplice, perché riproduce in una dimensione più piccola processi che sono della natura. Ma allo stesso tempo, per lavorare bene il compostaggio è imprescindibile una certa preparazione tecnica. In che modo un inesperto si approccia al Thermocompost?
L’associazione T.E.R.R.E. diffonde questo sistema su tutto il territorio italiano attraverso incontri, eventi e workshop di formazione sia teorica che pratica, anche on-line. L’obiettivo è quello di generare conoscenza, stimolare la ricerca e fare rete. La diffusione del ThermoCompost, infatti, potrebbe arrivare a rappresentare anche in Italia una fonte di occupazione per i giovani che vogliano portare avanti idee ecologiche di sostenibilità, trasformando in risorsa quello che viene ancora considerato come rifiuto.

E’ interessante il discorso sulla creazione di occupazione. Cosa intendiamo precisamente quando parliamo di questa possibilità?
Per occupazione intendiamo sia il lato di recupero, cippatura e fornitura dei sottoprodotti, sia quello dell’installazione e promozione del ThermoCompost. Sono molte le realtà che si stanno interessando al perfezionamento di questa tecnica; alcuni dei nostri allievi hanno intrapreso la loro strada nel miglioramento dell’impianto, mentre altri ragazzi stanno pensando anche all’introduzione delle nuove tecnologie: con Arduino, si sta lavorando a progetti di ottimizzazione e massimizzazione del rendimento dell’impianto.

Facciamo una panoramica italiana. Qual è lo stato attuale della diffusione del Thermocompost?
In Italia, la principale associazione che promuove, forma, progetta e realizza impianti è Terre. Personalmente ne ho costruiti una decina e l’ultimo si trova nel comune di Lozzo Atestino, in provincia di Padova. Per realizzarlo è stato fatto un workshop aperto a tutta la cittadinanza e il sindaco, che ha partecipato, ne è rimasto molto colpito e vorrebbe realizzarlo in vari campi sportivi e scuole del comune.
Altri impianti di interesse che ho costruito in Italia sono quello dell’Ecovillaggio di Alcatraz, in Umbria, quello dell’agriturismo “Colle delle Querce” a Morlupo, o quello di Talarù a Rieti e altri due all’Ecovillaggio di Tempo di Vivere, in provincia Di modena.  Insomma, si sta innescando un interessante processo di innovazione.
Poi, se usciamo dall’Italia, troviamo contesti più consolidati: in Germania c’è la già citata Native Power, di cui sono consulente in Italia e che con grande esperienza ha realizzato centinaia di impianti; in Olanda c’è la Biomeiler, in America e Canada troviamo gli impianti di Compost Power, che sull’argomento ha pubblicato anche un e-book.

State collaborando anche con le istituzioni? Qual è il loro atteggiamento?
Stiamo iniziando a dialogare anche con le istituzioni. Il nostro obiettivo in questo senso è soprattutto quello di incoraggiarle a riutilizzare le potature raccolte, piuttosto che bruciarle o accumularle in massa nei cassonetti.
In realtà, la percezione dei vantaggi che possono comportare questi impianti è ancora un po’ lenta, per questo stiamo realizzando tutta una serie di prototipi dimostrativi.

Un’altra caratteristica del ThermoCompost è che si allaccia a una filosofia più generale, quella della permacultura. Brevemente, in cosa consiste? Quali sono i suoi principi etici?
In breve, la permacultura è una materia nata in Australia negli anni Ottanta. Il suo nome deriva da cultura permanente, e le sue tecniche si rifanno ai modelli degli ecosistemi naturali, come ad esempio quello del bosco. Il suo obiettivo è osservare la natura, capire come funziona e partire dalle sue dinamiche per realizzare e progettare ambienti autosostenibili. I suoi principi etici sono cura della terra, cura delle persone e condivisione equa delle risorse.

Soprattutto in Italia, il tema dell’auto-produzione energetica è ancora delicato e poco esplorato. Avete mai ricevuto critiche sul Thermocompost?
Quando con Terre facevamo alcune consulenze istituzionali, qualcuno criticava come in città alcuni metalli pesanti non possono essere gestiti nelle potature e vengono assorbiti dalle piante. A queste supposizioni noi rispondiamo che la migliore tecnica esistente è quella della natura: la natura stessa infatti, nella fase di compostaggio, riesce ad isolare e incapsulare eventuali particelle e metalli pesanti, togliendoli dal suolo.
In ogni caso siamo convinti che il modo migliore per gestire questi sottoprodotti sia evitare di gettarli e bruciarli. Alcuni progetti che abbiamo realizzato con Alcatraz avevano coinvolto anche vari istituti di ricerca e ci si aspetta che le università, con il tempo, possano prendere parte alla diffusione di questo metodo e contribuire al suo miglioramento.