rap romano
06 Novembre 2018   •   Cecilia Gaudenzi

Rap romano e oltre. Ne parliamo con Piotta

«Piotta è uno dei big del rap romano. Tra i primi sulla scena musicale di questo genere ne ha saputo cavalcare la “Grande Onda” riconfermandosi da ieri a oggi. In occasione dell’uscita del suo ultimo album Interno 7 gli abbiamo chiesto di parlarci della scena rap romana.»

Chi poteva raccontarci il rap romano meglio di Piotta(Fb, IG) ? Nessuno ovviamente e quindi in occasione dell’uscita del suo nuovo album Interno 7 abbiamo deciso di fargli qualche domanda sulla scena rap romana e non solo. Tra i best rapper italiani di sempre, il rap romano Piotta l’ha visto nascere, tra i primi a sperimentare il genere è da tempo un punto di riferimento per moltissimi artisti. Lo canta, sfornando un successo dopo l’altro, 7 vizi Capitale, una delle sigle serie tv più apprezzate di sempre, tanto per fare un esempio e lo produce anche, con la sua La Grande Onda, tra le case discografiche italiane più attive! E allora sentiamo che ha da dirci Tommaso sul rap romano!

Ciao Tommaso! Intanto complimenti, è da poco uscito il tuo ultimo album Interno 7 come sta andando?
Molto bene, grazie. Non ti nascondo che ero in ansia, visto il disco così particolare e differente dai precedenti lavori, al netto al limite di un brano che è insieme sociale e d’atmosfera qual è la sigla internazionale di Suburra. Sta filando liscio, anche meglio delle più rosee aspettative. Tantissimi messaggi, sinceri e profondi come lettere, grazie a tutti per il grande amore, davvero.

Interno 7 perché e cosa lo differenzia dai tuoi precedenti?
Perché è il più intimo, come evoca anche il titolo. È il più emotivo e personale, tanto che un giornalista lo ha definito “il nono album di Piotta, il primo di Tommaso’, ed è vero. Mi sono completamente messo a nudo, non in un solo brano come in passato è stato con Ciclico o Non ti lascia, ma dall’inizio alla fine di queste 13 canzoni, anzi 14 su CD.

Qual è il valore del tempo e della memoria?
È tutto. La storia è la memoria e senza quella siamo poco più che nulla, siamo un contenitore vuoto, senza ricordi e quindi senza emozioni. L’ho visto in prima persona in tutti quegli anni in cui la malattia di mio padre, cui l’album è dedicato, mi ha costretto a frequentare tante persone malate perdere pezzi di memoria, di volti, di luoghi, di nomi, di quello che siamo stati e che forse la musica e l’arte ci permettono invece di essere anche dopo la nostra scomparsa.

Solo per noi. Noi chi?
Io parto dall3autobiografico per cercare di elevarlo, grazie alla forza evocatrice della musica, a qualcosa che sia il più universale possibile. Complice la mia riservatezza, quel noi – noi che certamente ha sempre un nome e un cognome, come tutte le storie di queste canzoni – è relativo, ognuno ha il suo “noi”, la sua “Tortoreto lido”, la sua casa d’infanzia, il suo Interno 7.

Adesso ti metto sotto torchio. Partiamo dal principio. Come è approdato il rap a Roma?
Da me è approdato in 2 fasi. Prima con l’ascolto di un giovane dj che si chiamava e si chiama Jovanotti, dal suo programma in radio fino al primo album. Ed è quella che chiamo la fase dj/scoperta di tanti nomi della scena americana che lui, (non dimentichiamo che non esisteva il web!) passava nel suo programma. La seconda fase è quella da mc/autore in cui, ascoltando gli Onda Rossa Posse, capisco che è possibile fare anche rap in italiano. Da lì la passione, il gioco, il divertimento, la condivisione con tanti coetanei in tutta Italia. Nell’era del non web abbiamo riempito il Forum di Assago, imballato l’Atlantico e il Piper di Roma, fatto dischi d’oro e di platino, la tv e il cinema. Insomma, i miracoli.

Ci racconti il rap romano quando hai cominciato tu?
Quando ho cominciato io, nel mio quartiere c’ero io, Simone (poi Danno), Massimiliano (poi Masito), Brusco e tutta la Villa Ada Posse con cui condividevamo box/sala prove e pomeriggi al parco ad ascoltare 2 musiche che all’epoca erano davvero cugine. Poi da lì i primi live a Forte Prenestino o i primi freestyle a Piazzale Flaminio. Da Goody Music a comprare i vinili con le strumentali perché nessuno, eccetto il più grande Ice One, aveva i mezzi per produrle. Succedeva quindi che sulla stessa strumentale ognuno si esibiva con le sue rime, tipo i jamaicani sullo stesso riddim.

C’era scambio, collaborazione con gli altri artisti?
Totale. Ci si scambiava di tutto. Dai dischi alle puntine, dai mixer ai cappelli, dalle bombolette alle t-shirt, c’era così poca roba che ognuno possedeva pochi vinili e pochi vestiti veramente hip hop, di quelli tripla XL che sembravamo tutti degli obesi. Fa sorridere a pensarci oggi.

E nelle altre parti d’Italia?
Idem, stessa solidarietà e stesso senso di appartenenza. CI si telefonava a casa, i cellulari non li aveva nessuno, e c’erano dei magnifici dialoghi con le rispettive madri, tutte piuttosto preoccupate da questo strano modo di muoversi e di fare musica, diciamo contente a condizione che gli studi non passassero in secondo piano. Personalmente sono stati anni bellissimi, pieni di sogni e di coraggio. Ora fare rap ha una connotazione lavorativa sin dalla partenza, all’epoca si poteva solo sognare di vivere facendo rap in Italia, nessuno l’aveva fatto prima della nostra generazione e noi, con tenacia e costanza, abbiamo plasmato i nostri sogni e li abbiamo trasformati in realtà.

Tre nomi del rap romano di ieri
Taverna VIII Colle Roma, la prima crew a suonare e fare dischi in tutta Italia dando voce a Roma e alla romanità in chiave hip hop. Ice One, Colle der Fomento ed il sottoscritto.

Oggi invece come è cambiato il rap romano
È cresciuta tantissimo come tutto il rap, ed è una scena variegata che a me piace tantissimo. Non sempre ma ancora bella hardcore, vera, con delle caratteristiche uniche come è unica la nostra città.

Sono cambiati i messaggi del rap oggi rispetto a ieri? E se sì, come?
Secondo me si sono ampliati, c’è spazio per tutto, dall’ironia all’amore, dalla politica all’ego-trip, dal fare soldi o fottersene dei soldi, dall’emotività ai ritmi da club.

Chi sono oggi gli eredi del genere?
Tantissimi, nemmeno te li nomino qui perché me ne dimenticherei qualcuno, ma ci sono almeno 10/15 nomi che in questo momento mi piacciono molto.

Me la faresti una top 3 o 5 dai!?
Odio le top di qualsiasi cosa, mi sembrano i post dei quarantenni su FB. Mi vuoi bene uguale se non te la faccio?

Mi sa che mi tocca dirti di sì! Con chi invece ti senti più affine? Da condividere il palco..
Oltre ai nomi citati ti direi i Cor Veleno e tra i più giovani Mezzosangue e Rancore, di cui, con La Grande Onda, ho prodotto anche l’album Elettrico in compagnia di Dj Myke, un album pazzesco che ancora ascolto spesso con piacere.

Quali sono le tracce migliori dell’ultimo periodo?
Resto sulle mie e ti dico Fa ’na buona jobba con Dub Fx o Interno 7 con Er Pinto, per originalità e poesia.

Non si fa che parlare della Trap. Cosa ne pensi, ha snaturato il rap o è una sua evoluzione?
Evoluzione mi pare un parolone visti i testi, magari sul discorso dei suoni, delle aperture molto melodiche, delle composizioni in minore, ma sulle metriche io questa evoluzione non la sento. Detto questo non demonizzo ma non riesco a entrarci in empatia più di tanto.

Esiste un rap puro?
Esiste un essere umano puro? Non credo, ognuno ha il suo lato oscuro, ergo anche i musicisti e la loro musica. Un conto però è gestirlo e tenerlo a bada, un conto osannarlo.

Come vedi il rap tra 10, 20 o 50 anni?
Lo vedo benissimo tra 10, benino tra 20, forse sarà solo revival tra 50. Anche il jazz ha fatto la rivoluzione poi è diventato uno standard, rispettabile ma tutto sommato un po’ atrofizzato.

E tu dove ti vedi?
Tra 50 al cimitero di Tortoreto Lido, tra 20 a fare sempre più il discografico e l’editore con La Grande Onda, tra 10 a fare dischi e tour proprio come adesso e “since 1994”, come scriverebbero sulle loro maglie i brand più cool.

 

Cecilia Gaudenzi