bialetti
20 Novembre 2018   •   Carolina Attanasio

Bialetti, un fatto culturale italiano coi baffi

«Voci di corridoio, e neanche troppo, danno Bialetti – il brand più legato al caffè italiano nel mondo – sull’orlo del fallimento. Noi, da bravi nostalgici tifosi delle cose belle, vi ricordiamo perché è un fenomeno italiano da salvaguardare. Fatevi un caffè»

Quanti secondi impiegate voi ad associare la parola caffè a Bialetti? Noi, qualcosa prossima allo zero. In principio c’era il signor Alfonso Bialetti da Verbania, proprietario di un’azienda di semilavorati in alluminio, che un bel giorno – mettiamo un sabato mattina, perché ci piace – vede la sua consorte fare il bucato in un pentolone bollente. Da lì, l’idea: facciamo una macchinetta per il caffè che non abbia bisogno di essere ribaltata durante l’ebollizione, come quella napoletana. Facciamola bella anche, un oggetto di design, che nel 1933 era una buona premonizione: molti degli oggetti legati a quell’epoca sarebbero poi entrati a far parte dell’art decò e delle collezioni vintage di molti di noi. Renato Bialetti, figlio di Alfonso, pensa a rendere quest’idea su scala industriale e trasformarla in un successo, da qui in poi è storia nota.

La caffettiera Bialetti sta alle nostre mattine quotidiane tanto quanto lavarsi i denti, farsi la doccia, è un bisogno primario a cui solo l’influenza intestinale trova modo di resistere.

Il caffè: una tradizione italiana

In Italia puoi prendere il caffè in due modi: combattendo al bancone del bar, in tazza bollente – si spera – con un gesto da 5 secondi netti, oppure a casa, dalla moka, sorseggiandolo assonnato la mattina, durante le mille chiacchiere del dopo pranzo o del pomeriggio. Il rito del tè ci piace, sì, il ginseng lo apprezziamo, d’accordo, ma continueremo sempre a guardare con sospetto quelli che col caffè, il nostro caffè, non sanno che farci, sono come degli italiani con qualche percento in meno. Se doveste stilare una classifica di quello che ci identifica maggiormente a livello di cultura, il caffè punta alla pole position, e con lui il signor Bialetti. L’uomo coi baffi, ispirato proprio ad Alfonso, ci guarda tutte le mattine col suo bel dito puntato in alto, non sai se vuole farti una domanda o solo dirti di puntare più su, avere una grande giornata.

Come fa una bevanda a diventare un fatto culturale?

Spesso è la pubblicità a metterci lo zampino, in questo caso legando il caffè a un marchio. Per Bialetti il battesimo del fuoco è avvenuto per mano della madre di tutte le propagande commerciali, Carosello. Nell’epoca in cui il contenuto veicolato dalla televisione era la bibbia di ogni famiglia, l’uomo coi baffi ha insegnato agli italiani cosa significa creare un rito intorno a quei minuti di attesa, prima che il caffè “esca”. Nel frattempo si parla, si argomenta, si discute, si guarda la macchinetta nella trance dei propri pensieri. Il caffè diventa il viatico della convivialità mangereccia, il digestivo di mille lasagne, la scusa per la sigaretta, il pretesto per la pausa.

Non è tanto il caffè in sé, è il caffè nella Bialetti a essere il fatto che fa cultura in Italia. Non ce ne vogliano i bacchettoni della moneta, ma in certi casi un marchio va al di là del vantaggio economico su cui si tiene in piedi, quando un oggetto di uso quotidiano si trasforma in un rito e dà senso a un gesto semplice come farsi un caffè – che in Italia è la vita, in pratica – va ben oltre la sua utilità, identifica una cultura e un modo di fare non replicabile in altri posti.

Bialetti vuol dire caffè perché quando ne parlate, non dite “metti su la moka” ma “la Bialetti”, anche se la moka in questione non è una Bialetti. È come quando dite “prendo un’aspirina” anche se state prendendo un farmaco equivalente, quando una macchina “tira come una Ferrari”, quando indossate un cappello a falda larga chiamandolo “borsalino”. Proprio di Borsalino avevamo già parlato, nel momento in cui rischiava la stessa sorte, provando a mettere del nostro per salvaguardare quello per cui tifiamo, le eccellenze italiane.

Voi, nel dubbio, mettete su un caffè.

Carolina Attanasio