moda made in Italy NY Times
19 Novembre 2018   •   Raffaella Celentano

Moda made in Italy: perché il NY Times continua ad attaccarci?

«Il New York Times continua la sua lotta contro la moda Made in Italy lanciando pesanti accuse al nostro fashion system, e le risposte non tardano ad arrivare. Ma si tratta di semplice interesse giornalistico o di un vero e proprio accanimento?»

La guerra del quotidiano americano New York Times contro la moda Made in Italy non si ferma, e dopo le dure critiche al fashion system e alla Milano Fashion Week, arrivano anche pesanti accuse nei confronti della filiera produttiva italiana.

Il NY Times, infatti, ha attaccato alcuni tra i brand italiani più famosi e influenti, accusandoli di produrre i propri capi pagando, in nero, le sarte ad 1 euro l’ora. Nella lunga inchiesta intitolata Inside Italy’s Shadow economy, la giornalista Elisabeth Paton, insieme con Milena Lazazzera, fa luce sull’economia sommersa dell’Italia in Puglia e, in particolare, a Santeramo in Colle (in provincia di Bari). Qui una donna di mezza età cuce ad 1 euro al metro un cappotto di lana della collezione autunno-inverno di Max Mara, che viene venduto dal celebre brand di lusso ad un costo che parte dagli 800 euro fino ad arrivare ai 2000.

Domande e… risposte piccate

Nell’articolo si parla di lavoro a domicilio, considerato uno dei pilastri del fast fashion oltre che una pratica particolarmente diffusa in paesi come India, Bangladesh, Vietnam e Cina. Qui milioni di lavoratori a domicilio, a basso costo, soprattutto di sesso femminile, sono tra i meno tutelati del settore. E, secondo Elisabeth Paton, si tratta di una pratica non troppo lontana dall’Italia e dal Made in Italy. La giornalista continua affermando che in Italia esistono condizioni di lavoro simili, e anche i maggiori marchi di lusso si servono di questi lavoratori. Tutto ciò è dovuto, spiega la Paton, alla crescente pressione derivante dalla globalizzazione e la crescente concorrenza a tutti i livelli del mercato.

Ovviamente non sono mancate le risposte dei brand di moda Made in Italy attaccati dall’articolo e degli addetti al settore fashion italiano. Un portavoce di Max Mara, ad esempio, ha affermato che l’azienda non era a conoscenza del fatto che i suoi fornitori impiegano lavoratori a domicilio, e che avrebbe stata avviata un’indagine. Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda, ha definito l’inchiesta «un attacco vergognoso e strumentale», aggiungendo che «la Puglia non è il Bangladesh» e preannunciando le vie legali. Infine, Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda, ha commentato la vicenda difendendo l’operato delle aziende di moda Made in Italy:

«Il New York Times denuncia una situazione anacronistica per dimensioni ipotizzate – sicuramente residuali e ininfluenti – che le stesse associate da anni combattono con fermezza. Rigorosi e frequenti controlli, verifiche di regolarità retributive e contributive sono attività normalmente svolte, in coerenza con un percorso di sviluppo e sostenibilità che la moda italiana ha voluto intraprendere prima di altri Paesi

Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda

Molti, inoltre, non hanno apprezzato questo accanimento del New York Times contro la moda Made in Italy. Già lo scorso anno e sempre in periodo di sfilate, infatti, il quotidiano aveva attaccato la Milano Fashion Week definendola «fuori focus» e accusando la moda italiana di non saper più raccontare il proprio tempo. Un attacco durissimo, che ha infastidito non poco gli stilisti italiani, accusati di giocare in maniera periferica e paragonati ai politici della nostra penisola, anch’essi poco influenti nel panorama europeo e mondiale. Insomma, pare proprio che la moda Made in Italy non piaccia ai giornalisti del New York Times! Ed è questo che fa sorgere qualche (ragionevole) dubbio sulla loro imparzialità, anche quando si tratta di inchieste così importanti e dettagliate come quella di Elisabeth Paton. Ma perché questo accanimento? Secondo Carlo Capasa il motivo è molto semplice:

«Gli americani rosicano perché siamo sempre più bravi e avanti nella moda sostenibile. Non a caso l’inviata del NYT ha disertato la scorsa manifestazione.»

Quanto c’è di vero?

Certo, ormai la notizia ha fatto il giro del mondo, e ha sconvolto non poco l’Italia e il suo sistema moda, portando tutti gli addetti al settore ad interrogarsi sull’effettiva eticità e trasparenza del nostro Made in Italy, che da sempre è sinonimo di raffinata artigianalità e condizioni di lavoro più che dignitose. Non che questo sia un male, anzi! Però bisogna sempre ricordarsi di essere oggettivi, soprattutto se si è giornalisti e si scrive su uno dei quotidiani più importanti non solo degli Stati Uniti, ma del mondo intero. E può risultare poco etico alzare un polverone del genere, senza tener conto dei tanti subappalti (che a volte possono sfuggire di mano alle grandi griffe), dei controlli a cui i lavoratori delle grandi aziende sono sottoposti e del fatto che tali aziende danno lavoro a migliaia di persone, anche a chilometro zero. Per di più, vista la crisi della New York Fashion Week e della moda americana, quasi interamente prodotta in Cina, non sono in pochi a parlare di invidia e boicottaggio ai danni della moda Made in Italy.

Ad ogni modo, che si tratti di invidia, boicottaggio o puro giornalismo di inchiesta, è comunque importante per noi italiani ricordare che possediamo un patrimonio inestimabile, fatto di storia, tradizione e artigianalità, e che abbiamo l’obbligo morale di preservarlo.

Raffaella Celentano