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27 Novembre 2017   •   Snap Italy

RomaFF12: chiude l’atteso The Place di Paolo Genovese

«Dopo il successo di Perfetti sconosciuti, il regista romano sceglie ancora una volta un grande cast per il suo ultimo lavoro, The Place, presentato in anteprima alla Festa del Cinema e acclamato come uno dei film più attesi dell’anno»

Un misterioso uomo siede sempre allo stesso tavolo di una caffetteria, il The Place, e da lì riceve visite di continuo. Ognuno dei suoi clienti vuole qualcosa, è spinto da un desiderio profondo, difficile da realizzare se non impossibile. Eppure tutto per quell’uomo sembra possibile. “Si può fare”, ripete a ciascuno. In cambio però c’è un compito da svolgere, un prezzo da pagare. Quanto saranno disposti a spingersi oltre i protagonisti per realizzare i loro desideri?

Attorno a questo interrogativo ruota The Place, l’ultimo fatica di Paolo Genovese, che torna al cinema con una pellicola che è un esercizio di stile, di scrittura e di contenuti, nonché un azzardo per il cinema italiano. A distanza di un anno dal grande successo di pubblico e critica di Perfetti sconosciuti, il regista romano riunisce di nuovo un grande cast in un’unica location per «una storia che pone profondi interrogativi sul confine tra il bene e il male, su quale siano i nostri limiti, su quale sia l’asticella della nostra morale e sino a dove siamo disposti a spostarla» ha dichiarato lo stesso regista alla conferenza stampa di presentazione del film alla Festa del Cinema di Roma.

Ma come è nata l’idea di questo film così particolare? «Quando ottieni un grande successo, le conseguenze migliori sono la possibilità di fare quello che vuoi e avere un pubblico che si fida di te» ha risposto Genovese. «Ho voluto realizzare un film diverso, particolare, perché, come dicono i fratelli Taviani (leggi qui la nostra recensione di “Una questione privata”), vorrei dare al pubblico qualcosa che ancora non sa che potrebbe piacergli». Sicuramente però il successo di Perfetti sconosciuti ha condizionato profondamente la visione del regista: «sono rimasto folgorato da una serie tv canadese, The Booth at the End, (trasmessa su Netflix) a cui è ispirato questo film, che metteva in scena la parte più nera delle persone. Perfetti sconosciuti e The Place sono legati da un filo rosso: il primo ci mostra quanto poco sappiamo degli altri, mentre il secondo quanto poco sappiamo di noi stessi».

Guardando infatti The Place si ha la netta sensazione che sia stilisticamente il seguito ideale del suo predecessore, e dalla tavola di Perfetti sconosciuti si passa al tavolino di un bar romano, il The Place appunto, ripreso quasi sempre dall’interno. Ma la formula “film corale + unica location” non è l’unica cosa ad accomunare i due film. Il “filo rosso” che li lega privilegia i dialoghi, la coralità, le performance attoriali, in una sorta di teatro filmato che attraverso dieci storie diverse indaga il buio dell’essere umano. «Amo molto la coralità, il piacere di poter avere tanti attori, tanti voci e tanti corpi diversi» ammette Genovese rivolgendosi al suo numerosissimo cast composto da Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alessandro Borghi, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Silvio Muccino, Vinicio Marchioni, Giulia Lazzarini, Rocco Papaleo, Sabrina Ferilli e Silvia D’Amico. «Ma il vero motivo è perché per le storie che racconto sento la necessità di raccontarle da più punti di vista. Il “ciò che sei disposto a fare per realizzare ciò che vuoi” è una situazione che riguarda tutti e nel film è raccontato per dieci volte da dieci punti di vista completamente diversi, proprio per permettere allo spettatore di immedesimarsi ogni volta in un’etica diversa. La coralità era perciò fondamentale» conclude Genovese.

Oltre alla coralità narrativa, il film è caratterizzato anche da una coralità produttiva, del tutto nuova, che ha visto un tempo di riprese minimo, di tredici giorni in totale, dove ogni attore ha girato singolarmente per uno o due giorni, tranne Valerio Mastandrea, che ha seguito invece tutta la lavorazione. «È stato lì per tredici giorni, fermo, immobile su quella sedia. Se vince il David quest’anno lo prende come Miglior Scenografia. Penso sia l’unico che gli manca» scherza Genovese. «A parte gli scherzi è stato davvero un lavoro di scenografia» dichiara lo stesso Mastandrea, «ma non scenografia nel senso di un mobile, ma più come una tenda spostata dal vento, un reagire alle emozioni degli altri. Ogni giorno avevo una storia e un attore diverso davanti. L’empatia verso il dolore del prossimo è stato una delle chiavi per poter interpretare il personaggio».

Un personaggio indefinibile, senza neanche un nome, per il quale è impossibile stabilire la natura: non è Dio, non è un angelo né un diavolo, non è la nostra coscienza, ma allo stesso tempo è tutto ciò. «Ognuno è libero d’interpretarlo come crede» risponde l’attore, «io non l’ho mai pensato come un’entità demoniaca, mefistofelica, magica o angelica. Ho sempre pensato che fosse lo specchio di quello che mi credevano gli altri, quindi un personaggio ancora più tormentato, inquieto e inquietante. Perché quando hai davanti uno che non ti presta il fianco, ma ti stimola e ti obbliga a comprendere che la responsabilità delle tue azioni è tua e che è solo attraverso quella scelta individuale che si può ottenere ciò che si chiede. Ecco, questi sono personaggi che fanno paura, anche nella vita reale».

The Place è un film «ambizioso, misterioso e difficile da spiegare» per usare le parole di Sabrina Ferilli, che pone interrogativi difficili su noi stessi a cui è impossibile sottrarsi. «Paolo ci ha chiesto di pescare nella nostra zona d’ombra ed evocare tutto ciò che la camera e lo sguardo escludeva» ha dichiarato invece Silvio Muccino, «la soluzione più facile per ciascuno è scappare da quella parte di noi stessi perchè l’unico modo per affrontarla è scendere a patti con quella bomba ad orologeria e guardarla. È un’esperienza con cui nella vita ci siamo grossomodo misurati tutti», conclude Muccino.

La gravità dei temi del film non ha però intaccato l’atmosfera del set durante la lavorazione, che si è svolta esclusivamente all’interno di un vero bar di una strada della capitale, nello specifico di via Gallia. Chi scrive abitando in quella zona era solita passare davanti al set ed assistere a tantissimi momenti di backstage: «aneddoti divertenti ce ne sono tanti» ammette Mastandrea, «io ricordo molto bene l’incrocio di via Gallia, che è uno dei protagonisti del film. Perché l’incrocio lavorava normale, quindi potete immaginare, un copione fatto esclusivamente di battute, silenzi e piani d’ascolto interrotto da varie tipologie di veicoli che noi ormai riuscivamo a riconoscere anche solo guardandoci in faccia».

Un film tutto parlato quindi, fondato su dialoghi e silenzi, che da un lato possono essere la forza del film, ma dall’altro anche il suo difetto più grande. La forte impronta teatrale aggiunta alla fissità della location può funzionare per una narrazione in più episodi, ma per il cinema rischia di stancare lo spettatore, facendo decadere il magnetismo scenico in una spirale ripetitiva e che non sfoga mai il suo potenziale di emozioni e pulsioni. The Place è sicuramente un film ambizioso nelle intenzioni, ma allo stesso tempo non sviluppato fino in fondo, che fa nascere riflessioni importanti ma senza mai approfondirle davvero, con personaggi interessanti che però spesso si esprimono solo attraverso aforismi. Nonostante questi difetti, il film di Paolo Genovese rimane comunque un film da vedere, una novità sia per i temi trattati che per la diversità del linguaggio cinematografico: The Place è infatti l’ennesimo esempio di come il cinema italiano degli ultimi anni sia pronto ad evolversi e tentare strade diverse.

Nota di merito anche per il brano dei titoli di coda, The Place, interpretato dalla bravissima Marianne Mirage e scritto scritto insieme alla band Stag e Matteo Curallo.

The Place, distribuito da Medusa, è nelle sale italiane dal 9 novembre.

Serafina Pallante