musei italiani
07 Marzo 2018   •   Carolina Attanasio

Musei italiani, una nuova vita tra interazione e condivisione

«È il momento d’oro dei musei italiani, stra-visitati e pompati da nuove forme di dialogo con l’arte, interattive e partecipative. La quantità dei visitatori cresce, ma possiamo dire lo stesso della qualità?»

I musei italiani hanno fatto il botto, che a Roma vuol dire fare un incidente, ma in questo caso l’unico contatto ravvicinato è stato – ed è – quello tra i luoghi dell’arte e un pubblico sempre crescente. Che cosa è successo? Ci è piovuta un’epifanìa culturale in testa? Siamo stati tutti da un buon oculista e ci siamo accorti della meraviglia che ci circonda? Nì. Una congiuntura astrale positiva, in effetti, c’è stata: Saturno è uscito dal segno dell’arte, qualunque esso fosse, e ha dato il via a una serie di fortunati eventi che hanno messo in fila migliaia di persone, per la gioia dei botteghini.

Qui potrebbe partire un discorso sul rapporto quantità/qualità di domanda e offerta lungo fino alle calende greche. Non lo faremo. Ok, forse un po’. La verità è che l’aumento spropositato di pubblico è direttamente proporzionale alla sua eterogeneità, questo vuol dire che l’offerta culturale ha dovuto adeguarsi a canoni con un bacino di utenza più vasto. A onor del vero, c’è da dire che gli incrementi d’entrata dichiarati non corrispondono sempre a un aumento dei visitatori: come riportato dal Sole 24 Ore, i dati dichiarati sono, a volte, frutto dell’aumento del prezzo sul biglietto o del fatto che, con lo stesso ingresso, si accede a diverse mostre dello stesso complesso. Tuttavia, la crescita esponenziale d’interesse intorno alla cultura è un dato inconfutabile. La domanda resta sempre la stessa: come hanno fatto i musei italiani a determinare quest’incremento così positivo? Scopriamolo per passi.

Step number one: trova un buon direttore

La cultura è un’impresa? Un po’ sì, dai. Nessuna istituzione resta in piedi senza un buon governo. Franceschini questo lo sa e qualche anno fa ha iniziato un risiko di nomine e spostamenti di Direttori che neanche in una puntata del Trono di Spade. Cito due esempi campani: un bolognese a Caserta (Mauro Felicori, uno che è stato accusato di lavorare troppo, da gente che non ha mai lavorato in vita sua) un tedesco a Paestum (Gabriel Zuchtriegel, neanche quarantenne, uno la cui nomina era stata bocciata dal TAR perché non italiano e con un curriculum meno ricco dei concorrenti più anziani, maddai). Quello che è ancora chiaro a pochi è che non importa da dove vieni, tantomeno se sei uomo o donna, conta il risultato e la capacità di tenere in piedi una macchina bella e impossibile come quella della cultura in Italia. Con buona pace della polemichetta politica e del burocratese.

Step number two: go social

Li odiate, li snobbate, non pubblicate mai niente ma fate stalking delle vite degli altri mentre siete in bagno la mattina. Attivi o passivi, siamo tutti lì. E quindi, caro museo, ti tocca. Il buon esempio l’ha dato il MIBACT, attraverso una serie di campagne di comunicazione, con hashtag piazzati ad hoc: uno su tutti, #domenicalmuseo, ideato per promuovere le domeniche a ingresso gratuito e causa numero uno di quantità fotoniche di selfie con Caravaggio alle spalle.

Da qui in poi, è pioggia di presenze e iniziative social per la maggior parte dei grandi musei italiani. L’utilizzo massiccio dei social network da parte dei maggiori musei italiani ha determinato una reazione a catena anche delle realtà più piccole, o locali, che grazie a un buon utilizzo della rete sono riuscite a farsi conoscere al grande pubblico. La strada è ancora lunga, diciamolo, ma la luce c’è e si vede.

Complice la ritrovata popolarità dei borghi d’Italia, la voglia di tanti giovani di lavorare sul territorio e il nuovo trend che vede i turisti includere anche i centri più piccoli nei loro tour, la primavera culturale è fiorita lungo tutto lo Stivale.

Step number three: rendi l’arte interattiva

Qui viene il bello, e il brutto forse, della questione per i musei italiani. L’arte contemporanea è stata quella che ha avuto vita più facile da questo punto di vista, prestandosi per sua natura allo strumento interattivo, specialmente digitale. Tutti gli altri (millenni di storia, dunque) hanno dovuto ricorrere a un po’ di botulino per tornare a esercitare attrazione, succubi di un pubblico spesso annoiato e distratto. Qui viene il bello: è giusto pompare steroidi nell’arte per renderla più attraente? La questione si pone, in particolar modo, nei confronti delle giovani generazioni, ragazzi con una soglia di attenzione di dieci-quindici secondi. Non che siano scemi, per carità, solo un pelo distratti dalla tecnologia.

Allora succede che devi spiegargli che gli edifici romani non erano solo marmo e mattoni come li vediamo oggi, ma Roma era un tripudio di colori vivaci in ogni dove, e devi farglielo vedere col dispositivo in 3D. C’è chi si chiede se questa non sia l’ultima goccia prima di spegnere completamente l’immaginazione e l’inventiva delle giovani generazioni, che non devono fare più nessuno sforzo di memoria e, quindi, non ricordano niente, figuriamoci immaginarlo. D’altra parte, è anche meraviglioso poter giocare con l’arte, avvicinarla alla gente, che forse così la sente in modo più personale. La virtù sta nel mezzo, anche stavolta?

La questione è controversa, capire l’arte o sentirla soltanto? È un po’ come quando conosci di persona il tuo mito personale, quando realizzi che è solo un uomo ti senti meglio, sì, ma ti passa anche un po’ l’entusiasmo che avevi quando lo consideravi un Dio.

Io vado al museo senza neanche prendere l’audioguida, perché non voglio conoscere tutti i dettagli che si celano dietro un’opera, voglio girare l’angolo, trovarmela davanti e piangere guardandola, senza sapere perché lo sto facendo. Forse l’arte non è democratica come vorremmo, forse per capirla davvero è necessario fare quello sforzo d’immaginazione che ci allontana da terra, vero, ma ci porta per un attimo tra gli Dèi. Una sensazione che non può essere riprodotta in 3D.

Carolina Attanasio