data scientist
07 Giugno 2017   •   Snap Italy

Data Scientist: le nuove professioni digitali

«Terzo appuntamento con le nuove professioni digitali, questa volta dedicato al Data Scientist, un esperto ai più sconosciuto, oggetto di una serie di tentativi imbarazzanti di dargli un significato»

Un po’ matematico, un po’ fisico e molto digitale. La capacità di analizzare e interpretare dati ha reso, negli ultimi anni, la figura del Data Scientist molto richiesta nel mondo aziendale, che spesso, di quei dati, ne fa il suo core business. Dalla seconda metà del nuovo millennio, il mondo ha assistito ad una vera esplosione nella produzione giornaliera di dati, così tanti e provenienti dai più disparati settori, che spesso vengono archiviati in maniera “non strutturata” e lasciati a marcire nei server.

I data scientist nascono sostanzialmente dalla combinazione tra le loro attitudini, gli studi accademici e le opportunità lavorative emergenti sul mercato. Vista la massiva richiesta di analisti, negli ultimi anni sono nate iniziative sinergiche tra il mondo accademico e le aziende per costruire dei curricula che portino alla professione del data scientist: i primi esperimenti li ha compiuti nel 2013 IBM con il Politecnico di Milano, avviando un progetto congiunto di studi chiamato PoliMI-IBM Collaborative Innovation Center for Business Data Analytics. Oggi ne parliamo con Mario Alemi, fisico esperto, attualmente partner di elegans.io, una piccola consultancy londinese specializzata in machine learning/AI/modellizzazione matematica.

data scientist alemi

Buongiorno Dott. Alemi, partiamo dal suo background di studi.

Sono un fisico e come tale il mio background si basa su una facoltà che ti obbliga a pensare in maniera scientifica, osservando i dati con modelli matematici che non lasciano spazio a dubbi. Adesso stanno emergendo altri indirizzi di studi confacenti il mio ruolo di data scientist, però i fisici da sempre hanno avuto un’importanza cruciale nello sviluppo di tante tecnologie, proprio per il loro approccio metodico legato al dato esperienziale.

Come è arrivato da fisico a diventare un data scientist?

Devo innazitutto precisare che data scientist mi sembra un ottimo termine di marketing, ma mi accorgo che è solo una tautologia perché non può esistere un dato senza la scienza e viceversa. Tempo fa, quando nel 1995 iniziai a lavorare al CERN, il più grande database pubblico era lì in Svizzera. Per far capire come sono cambiate le cose, quando andai via nel 2000 il CERN aveva perso questo primato a favore di Google e soci. Con l’introduzione del web, la produzione dei dati non è stata più appannaggio della fisica ma, per dirla in breve, della società stessa. Lo stesso Tim Berners-Lee disse una volta che «il web era un’invenzione sociale». Con internet, gli scienziati hanno ricominciato a beneficiare del dato sociale e il data scientist analizza qualsiasi dato prodotto dall’essere umano.

Cosa fa dunque nello specifico un data scientist?

Beh, alla fine non deve fare altro che creare modelli matematici che ti permettono di descrivere il comportamento delle persone. In passato, prima del web, gli scienziati non avevano accesso a questo tipo di dati, spesso erano i sociologi a produrne, con molti anni di raccolta esperienziale. L’analisi e la potenza di calcolo che ora è a nostra disposizione è letteralmente esplosa grazie alla tecnologia e alla produzione di dati sociali che il web ci offre.

Qual è l’esperienza di lavoro che più l’ha formata?

Per forza di cose devo tornare al mio periodo al CERN, quando svolsi il mio dottorato. Se vogliamo lontanamente equiparare quell’esperienza ai canoni di oggi, è come andare a lavorare al centro di calcolo e analisi di Google a Mountain View. All’epoca ero in mezzo a migliaia di intelligenze, di premi nobel. Parlavi con delle persone la cui capacità di analisi era talmente superiore alla tua che non potevi che esserne illuminato. Il web è nato lì per un motivo.

Quanto beneficiano le aziende del data scientist?

A parole tantissimo, in pratica ti rendi conto che moltissime aziende medie o medio-piccole non lo usano a pieno. Spesso il manager odierno si vanta di non saper mettere mano ai computer, perché non è il suo compito. Io penso invece a un Larry Page, che anni dopo il successo di Google continuava a mettere le mani sui computer, così come Gates o Zuckerberg: sono tutti programmatori. Stesso discorso in Europa, dove non ci sono ancora grandi aziende guidata da uno scienziato. A me, invece, viene in mente un paese, la Germania, il cui cancelliere è un fisico. Voglio dire: è mai possibile che l’esperto non sia mai il leader in un’azienda? A volte sembra che i manager si affannano ad avere i migliori data scientist sul mercato solo per potersene vantare. Questo succede perché d’altronde il fisico, o il dato incontrovertibile esperienziale su cui lavora, cozzano con le qualità che vengono spesso arrogate ai grandi manager, ovvero l’intuizione o il colpo di genio. Oggi le grandi idee vengono prima pensate da persone che non sanno nulla di informatica, per poi cercare il data scientist o il programmatore di turno che la sviluppino.

Pensando al futuro, come vede la sua professione da qui a 20 anni?

Penso che comunque tutte le aziende che ancora non concepiscono il continuo controllo scientifico delle loro politiche interne spariranno, e rimarranno solo quelle che mantengono tale atteggiamento legato ai dati. Lo spazio per i data scientist ci sarà sempre, ma ciò che serve è l’atteggiamento scientifico che porta le società a testare i propri business model. L’analisi dei dati sarà sempre fondamentale, penso però che si creeranno altri mostri monopolizzanti alla Google, perché la quantità di dati che cominceremo a sviluppare tra vent’anni sarà esponenzialmente maggiore. La capacità di trasmettere informazioni unirà il pianeta come un tessuto neuronale globale. Saremo sempre più interconnessi e il data scientist ci sarà ancora, solo che uscirà dalla sua isolata torre d’avorio e diventerà una lavoro come tanti.

Flavio Mezzanotte