Sport italiano
01 Dicembre 2017   •   Snap Italy

Sport italiano, approfondimenti e novità sul professionismo

«Come funziona il professionismo nello sport italiano? Quali atleti sono dilettanti e quali professionisti? Una panoramica su un problema di cui si parla da sempre ma forse non abbastanza.»

Parlare di professionismo nello sport italiano è complicato. Ci sono ancora tante differenze. Sia a livello di discipline che a livello di genere. Sono ancora tantissimi gli atleti, di entrambi i sessi, che vengono classificati come dilettanti, nonostante il loro impegno sia pari a quello dei professionisti. A monte di questo evidente problema dello sport italiano c’è la legge, che non riesce a trovare una soluzione idonea a garantire pari diritti e doveri a chi vive di sport, a chi ne fa, prima che una passione, un lavoro vero e proprio.

La situazione del professionismo nello sport italiano è sicuramente oscura a molti. Vi diamo qualche informazione.

Ad oggi, in Italia, le federazioni che riconoscono i professionisti sono solo quattro: calcio, basket, golf e ciclismo. Fino a qualche anno fa erano sei. C’era anche il motociclismo, che ha chiuso il settore nel 2011 e la boxe che l’ha fatto nel 2013. A questa differenza tra discipline si aggiunge poi l’altrettanto grave differenza di genere. Sì, perché queste quattro federazioni riconoscono come professionisti soltanto gli uomini. Per le donne dello sport italiano il professionismo è pura utopia. Una Flavia Pennetta, una Federica Pellegrini e tantissime altre, che vivono di sport, sono in realtà, a livello burocratico, delle dilettanti.

La legge che in Italia regola il professionismo sportivo è la n.91 del 23 marzo 1981, che, come abbiamo visto, è stata poi modificata. Questa definisce professionista sportivo “colui il quale esercita attività sportiva a  a favore di una società sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità, nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI che hanno riconosciuto il professionismo”. Quindi, dal 2014, soltanto la Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), la Federazione Ciclistica Italiana (F.C.I.), la Federazione Italiana Golf (F.I.G.) e la Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.).

Quindi, per assurdo, in base a questa legge atleti come Pietro Mennea, Adriano Panatta, Valentia Vezzali, Federica Pellegrini, Carolina Kostner, Alberto Tomba sono stati, o sono tutt’or,a semplicemente dei dilettanti.

Ma cosa significa ai fini pratici questo? Significa non avere diritto a pensione, maternità, minimo salariale o Tfr, quindi essere costretti spesso e volentieri a trovare delle alternative. Molti scelgono ad oggi la strada dell’appartenenza ad un corpo militare, che concede loro il diritto ad una copertura previdenziale indipendentemente dalla carriera sportiva oppure le possibilità di lavorare in qualità di tecnici. Chi non fa questa scelta, e oggi sono veramente pochi, è costretto invece a riciclarsi completamente una volta finito il periodo da atleta e anche in concomitanza con questo, a trovarsi un lavoro del tutto diverso per portare a casa qualcosa.

Ma perché così pochi sport riconoscono i loro atleti, uomini, come professionisti? Le società italiane hanno obblighi fiscali spesso insostenibili e in molte occasioni si ritrovano costrette a chiudere. Il quadro legislativo in cui si muovono rende impossibile una concorrenza normale con le società estere che, come nel caso del calcio, godono di privilegi e agevolazioni che da noi non esistono. A questo si aggiunge il problema, altrettanto importante, della discriminazione di genere. Le donne, infatti, non sono ritenute professioniste nello sport italiano, in nessun tipo di disciplina. Spesso questa differenza si attribuisce all’assenza di quei grandi numeri che permettano alle federazioni di far entrare nelle loro casse il denaro necessario a parlare di professionismo.

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Ma non sempre questa attribuzione è esatta. Prendiamo ad esempio la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto: qui le donne tesserate, secondo i dati della Legavolley, sono 279.893 contro i soli 88.050 uomini. Il campionato femminile, infatti, è diventato un appuntamento fisso sui canali telematici, con un largo seguito di pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a 146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina (Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di share. Eppure ancora non si parla di professioniste. Altro esempio può essere quello del nuoto, dove il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari. Secondo i dati Fin, su 149.411 atleti il 45% sono donne e il successo mediatico di alcune stelle come Federica Pellegrini o Tania Cagnotto è fuori discussione. Eppure niente.

Oggi le atlete donne che fanno dello sport il loro lavoro si vedono costrette a gareggiare per il nostro Paese da dilettanti, con tutti i problemi che ciò comporta: dal percepire un compenso economico inferiore al 30% rispetto agli uomini che praticano la stessa disciplina, nessuna tutela e garanzia contrattuale e previdenziale”
Valentina Vezzali (Fb), campionessa olimpica di fioretto femminile per Wired.

In Italia siamo fermi ad un lungo elenco di proposte di legge bloccate da anni in Parlamento. La più recente è quella presentata nel novembre 2014 dalla deputata del Pd Laura Coccia per modificare gli articoli 2 e 10 della legge n. 91/1981 in materia di applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico. Prima di lei, a cambiare le cose, ci aveva provato nel 2011 Manuela Di Centa del Pdl, con la proposta di istituire un contributo obbligatorio per creare una cassa previdenziale dello sport, in grado, tra le altre cose, di tutelare le atlete in maternità.

Personalmente sono un sostenitore del fatto che la legge 91 vada cambiata: è un legge retrograda, antiquata e che oggi non è più in linea con i tempi che viviamo. Sostengo da tempo la necessità di una nuova legge quadro; il governo conosce bene le nostre istanze e queste saranno oggetto nei prossimi mesi di un confronto tra noi e le rappresentanze politiche preposte alla discussione di questa materia. Rimane il fatto che io non sono un interlocutore legislativo, ma per quanto in mio potere posso tentare quella che viene chiamata moral suasion” Giovanni Malagò, presidente del CONI, al Manifesto.

Insomma il professionismo nello sport italiano è ancora una questione da risolvere o quanto meno da gestire in maniera differente. Si farà mai qualcosa? Nessuno può rispondere. Gli atleti sembrano non voler perdere le speranze e associazioni ad hoc nascono continuamente per difendere i diritti di chi ha scelto di dedicare la propria vita allo sport. Come ASSIST, l’Associazione Nazionale Atlete, in prima linea nella battaglia per il riconoscimento di pari diritti. Fondata da ex atlete quali Luisa Rizzitelli, Manuela Benelli, Eva Ceccatelli, Sara Pasquale e Vanessa Vizziello, questa associazione si batte soprattutto per le donne, per far sì che abbiano in Italia gli stessi diritti che hanno gli uomini che fanno sport, in qualunque settore si trovino, che siano esse atlete, allenatrici o altro.

“Abbiamo sollevato un problema che nessuno in Italia aveva mai sollevato prima. Oggi c’è una maggiore consapevolezza, da parte delle atlete e anche da parte delle istituzioni, che stanno rimandando da anni ma che prima o poi andava affrontato. Qualche risultato lo abbiamo già ottenuto, come ad esempio far sì che i premi nelle competizioni internazionali siano uguali tra uomini e donne. Ma ancora c’è tanto lavoro da fare. Anche perchè molti fuggono da questo problema gareggiando per i gruppi militari, dove indubbiamente gli atleti e le atlete sono coperti a vita. Ma, se ci pensiamo bene, anche questa è una forma di discriminazione, ed è uno dei problemi all’ordine del giorno per cui Assist si batte”
Luisa Rizzitelli

Foto: www.assistitaly.it/it/home

Il lavoro da fare è tanto, per il professionismo e per i pari diritti. Speriamo che si possano raggiungere accordi, che si possa dare ad ogni disciplina il valore che merita, perché l’impegno e la dedizione che ci sono dietro non sono assolutamente discriminabili. Diamo valore ai nostri atleti, diamo fiducia allo sport italiano.

Chiara Rocca