moda e fascismo
19 Gennaio 2021   •   Raffaella Celentano

La moda durante il ventennio fascista tra autarchia e bonifica linguistica

«Sapevate che moda e Fascismo erano strettamente collegate? Durante il regime, infatti, il settore moda fu utilizzato per scopi propagandistici. Vediamo in che modo…»

La storia della moda, si sa, è un punto di riferimento fondamentale per studiare e comprendere i cambiamenti socio-culturali di un popolo e di un periodo storico. Non è un caso, dunque, che i costumi del ventennio fascista siano considerati un esempio lampante di ciò che è accaduto in Italia tra il 1923 e il 1943. Insomma, moda e Fascismo sono intrinsecamente legati e ancora oggi offrono interessanti spunti di riflessione a tutti coloro che desiderano saperne di più su un periodo storico che ha (purtroppo) cambiato il volto del nostro Paese.

Innanzitutto, bisogna capire che l’unione fra moda e Fascismo fu fortemente voluta dal governo, perché a Mussolini la moda interessava, così come interessava la comunicazione di massa e il cinema. L’abbigliamento (specie quello femminile) divenne in quel periodo un potente mezzo di comunicazione e di propaganda, utile per far comprendere ai cittadini italiani quali erano i comportamenti adeguati da adottare.

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L’emancipazione dai cugini d’Oltralpe

Dopo la prima guerra mondiale in Italia ci furono i primi tentativi di creare una moda italiana completamente slegata ed emancipata dalla moda francese. Non è un segreto, infatti, che fino ai primi decenni del ’900 erano stati i francesi i veri pionieri della moda internazionale. Nel 1919, per la prima volta, si provò a dar vita ad una moda completamente italiana. Siamo ancora lontani, ovviamente, da quello che oggi chiamiamo Made in Italy, ma l’idea di una moda autarchica iniziava a farsi strada. Il 16 marzo 1919 venne inaugurato a Roma, in Campidoglio, il primo Congresso nazionale dell’industria e del commercio dell’abbigliamento. Nella relazione del comitato promotore si sottolineavano i propositi del Congresso: “non mancandoci né genialità, né buon gusto […] dobbiamo cercare di far entrare il nostro paese nell’orbita dei centri irradiatori della Moda e del Vestire”.

Insomma, gli italiani volevano una moda tutta loro. Con le sue regole, i suoi canoni e i suoi termini. In questi anni ci furono due personaggi che si trasformarono nei maggiori fautori dell’idea di una moda italiana autonoma: Fortunato Albanese e Lydia De Liguoro. Fortunato Albanese presentò al ministro per l’industria Cantoni, nel 1917, un opuscolo dal titolo Per una moda italiana, in cui esponeva la sua idea circa la fondazione di un Ente Nazionale per la moda, elencando anche i difetti del sistema industriale italiano. Nel 1918, poi, redasse un opuscolo dal titolo Il perché del I Congresso Nazionale fra le industrie dell’Abbigliamento, mentre nel 1919 tenne diverse conferenze circa il valore economico e sociale della moda.

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Lydia De Liguoro, invece, era l’anima di LIDEL, una rivista nata nel 1919. Il nome Lidel era uno pseudonimo della sua creatrice, ma era anche l’acronimo di Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza, Lavoro. Fortemente nazionalista, la De Liguoro aderì a uno dei primi gruppi proto-fascisti, quello delle “ardite” di Milano e successivamente divenne membro del Fascio femminile nazionale di Milano.

Sebbene Lidel fosse una rivista lussuosa, nel 1919 Lydia De Liguoro, iniziò una crociata contro il lusso, al fine di porre rimedio alla crisi economica post-bellica. Negli anni subito dopo la guerra, infatti, era sentimento comune ritenere irresponsabili le donne che spendevano molti soldi in abiti. Costretta a rivedere la sue posizione estremista, soprattutto a causa degli industriali allarmati dalle possibili conseguenze della sua crociata contro il lusso, la De Liguoro spiegò più tardi che «Non bisogna combattere contro il lusso, ma contro il lusso d’importazione straniera». Iniziò, dunque, a promuovere l’idea di effettuare i propri acquisti solo ed esclusivamente in Italia. Usando un linguaggio patriottico, enfatizzava continuamente il potenziale dell’artigianato italiano per lo sviluppo di uno stile che fosse genuinamente ed esclusivamente italiano.

L’autarchia

Era l’inizio della moda autarchica. Il governo, le riviste e gli esperti del tempo cercavano di valorizzare sempre più la moda italiana a scapito di quella francese o americana. Nel 1932 a Torino nacque l’Ente autonomo per la mostra permanente nazionale della moda, il cui scopo era quello di italianizzare tutto il ciclo produttivo del settore moda, organizzando una mostra da tenersi due volte l’anno, in primavera e in autunno.

Tuttavia, ben presto emersero alcune lacune organizzative. La moda italiana non aveva una struttura solida capace di fornire una preparazione professionale adeguata, e questo si rifletteva non solo nella realizzazione dei modelli ma anche nella loro commercializzazione. Infatti, il nostro Paese continuava a rivolgersi alla Francia per acquisire modelli e disegni. Ma il regime non si arrese e nel ’35 l’Ente autonomo per la mostra permanente nazionale della moda cambiò definitivamente nome in Ente nazionale della moda, i cui compiti si moltiplicarono. Innanzitutto creò un elenco delle sartorie che avevano il dovere di contrassegnare almeno il 25% della loro produzione con il marchio di garanzia rilasciato dall’Ente stesso che sanciva l’italianità del capo, dalla creazione alla produzione.

La bonifica linguistica della moda (e non solo)

L’Ente nazionale della moda promosse anche la pubblicazione, nel 1936, del Commentario Dizionario Italiano della Moda curato da Cesare Meano. In questo testo venivano proposte le italianizzazioni di tutti i termini stranieri in uso nel campo della moda. Nel corso del ventennio, infatti, il regime promosse una campagna di italianizzazione che coinvolse svariati settori, non da ultimo (appunto) la moda. In cosa consisteva questa campagna? Semplicemente tutti i termini stranieri erano banditi dal dizionario italiano.

Secondo il Commentario il tailleur diventava completo a giacca, il golf si trasformava in panciotto a maglia, i pois erano pallini, le paillettes diventavano pagliuzze, lo smoking era una giacchetta da sera, il satin si faceva raso, i volant diventavano volanti e così via. I termini non italiani erano banditi anche dai nomi delle aziende o società. Basti pensare che i grandi magazzini Standard cambiarono nome in Standa. Ancora, era impensabile (con l’avvento delle leggi razziali) utilizzare nomi di origine ebraica. Molto interessante  a tal proposito è la storia di Schostal, negozio di abbigliamento romano fondato da due ebrei viennesi, Leopoldo e Guglielmo Schostal, e rilevato durante la Prima Guerra Mondiale dalla famiglia Bloch. Giorgio Bloch, per mantenere l’insegna Schostal del suo negozio, dichiarò che in realtà non si trattava di un nome ebraico bensì dell’acronimo di “Societé Commerciale Hongroise Objects Soie Toile Articles Lainage”.

Moda e Fascismo per definire la donna ideale

Insomma, possiamo affermare che moda e Fascismo andavano di pari passo perché il regime fece proprie le battaglie per emancipare la moda italiana, rendendole parte del proprio programma di governo e sfruttandole per il proprio fine nazionalistico. Inoltre, utilizzò la moda anche per ridefinire il ruolo della donna. Il modello di donna androgina, della flapper e della garçonne, che si era affermato negli anni Venti, non era ben visto dal regime che l’aveva rinominato “donna crisi”. Al suo posto cercò di affermare un modello di donna più florida e dalle forme mediterranee che doveva essere sposa e madre esemplare. Questa preferenza venne motivata dal regime con il fatto che la donna magra non piaceva all’uomo e soprattutto non sarebbe stata in grado di procreare una prole sana e forte per la patria.

Con l’inizio della guerra e l’occupazione di Parigi, la moda perse il suo centro. Occorreva trovare un’alternativa alla creatività francese, facendo affidamento sulle produzioni locali italiane. Certo, inizialmente il regime cercava di minimizzare ogni difficoltà e le riviste continuavano a proporre abiti sontuosi. Quando la situazione si fece più critica fu introdotto il sistema delle tessere a punti anche per i capi d’abbigliamento (l’unica eccezione era rappresentata dai cappelli). Occorreva, dunque, rivedere il guardaroba: gli orli si accorciarono al ginocchio e le giacche si fecero attillate (per risparmiare sulla stoffa), mentre le spalline divennero imbottite, quasi a richiamare le uniformi militari. Era l’inizio della moda bellica.

Raffaella Celentano