02 Gennaio 2016   •   Raffaella Celentano

Luisa Bruni: i gioielli che materializzano le emozioni

«L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma in realtà magia e bellezza sono in noi.» – Kahlil Gibran

Romana di nascita, ma torinese di adozione, Luisa Bruni è la designer di gioielli che sta conquistando l’Italia, e non solo. La sua è stata una formazione di stampo artistico, a cui ha unito uno spiccato gusto estetico e a continua ricerca di nuove emozione da “materializzare”. I suoi gioielli sono la parte visibile di tutti i suoi pensieri e le sue sensazioni, oggetti di design che si trasformano in “contenitori di emozioni” come la cornice per il quadro.

Ma lasciamo che sia proprio Luisa Bruni a raccontarsi…

Parliamo delle fonti di ispirazione. Come inizia il suo lavoro?
La nascita di un mio lavoro può essere ispirato dalle situazioni più varie. Spesso vengo colpita da un tema o un’immagine, che sia in foto o reale, sia per il suo significato che per la sua estetica. L’estetica la considero una parte fondamentale per il semplice fatto che, in definitiva, i miei prodotti sono ornamenti, la cui prerogativa dovrebbe essere il piacere di indossarli e la portabilità.

Qual è la parte più importante del processo di creazione?
La parte fondamentale del mio lavoro, e che mi impegna nelle riflessioni maggiori quando creo un pezzo, si basa su quello che voglio provocare nello spettatore. Un bel gioiello, e ce ne sono molti in giro, è bello e basta. Che sia di design o semplicemente decorativo non stimola mai nell’osservatore null’altro che il piacere stesso. Prendiamo ad esempio i fiori; penso che i fiori siano il soggetto più abusato nella gioielleria e ne sono stati fatti di straordinari, sia come importanza e preziosità che come tecnica orafa. La mia ninfea, cioè l’anello “cra…cra…” è sì un omaggio alla natura (per vie traverse tutti i miei soggetti lo sono) ma dal titolo al successivo sguardo sull’oggetto la mente di chi guarda si domanda “dov’è la rana?” e l’istinto assurdo che viene subito dopo è di cercarla sotto le foglie adagiate sull’acqua. Ho visto persone che avvicinavano l’occhio alla lastra di resina un po’ imbarazzati da questa loro intima curiosità e girarsi l’anello tra le mani cercandola!

Come riesce a trasformare le emozioni in oggetti?
Trasferire un’emozione in un oggetto, mi verrebbe da dire “non è semplice” perché scritto così, nero su bianco, sembra effettivamente difficile, ed effettivamente lo è. È una domanda difficile. Faccio un esempio: l’anello “Times Old Roman” realizzato per una mostra sull’archeologia al museo archeologico di Anzio (RM). All’inizio avevo la mente piena di anfore (avevo visitato il museo per trarre ispirazione), incrostamenti, pitture, avevo anche abbozzato un anello a forma di anfora, ma non ero totalmente soddisfatta. Così mi misi a cercare in internet qualcosa che potesse stimolarmi digitando semplicemente la parola “archeologia”. Tra le varie foto ne uscì una con delle anfore inabissate, filtrate dal blu del mare. Era un’immagine bellissima. Dovevo ricreare quell’immagine e il silenzio che mi provocava. Avevo le idee chiare sui passaggi da attuare in fase di realizzazione, così feci delle prove, le prime insoddisfacenti, fino ad arrivare al gioiello finito. Il risultato fu la prima menzione speciale dell’esposizione.

Con quali materiali preferisce lavorare di solito?
I materiali che utilizzo sono sempre finalizzati all’effetto che voglio avere. Di base utilizzo l’argento che ha un colore neutro, poi le resine trasparenti o colorate, il plexiglas che si scolpisce molto bene, le vernici, il legno, ecc. Insomma, tutto quello che si può reperire se mi serve lo utilizzo in base alla mia idea. Quando ho realizzato “Ebe: Plink divino” sapevo che l’argento no poteva funzionare con il plexiglas rosso. Un po’ perché l’accostamento risultava freddo e un po’ perché la coppiera degli dei doveva avere un calice almeno d’oro.

Come ha reagito il pubblico a queste creazioni così particolari? E quale target è stato più recettivo?
Per ovvi motivi i miei non sono pezzi per un grande pubblico e che se si pensa ad un gioiello questi non sono esattamente la prima cosa che viene in mente. I miei pezzi più importanti, come questi che ho citato, sono stati acquistati quasi tutti da collezionisti d’arte per ovvie ragioni.

Anche l’idea di unicità espressa da ogni singolo gioiello ha avuto un impatto positivo?
L’impatto visivo che suscitano è notevole. O almeno lo è stato quando li ho presentati per la prima volta nel 2010 al Macef a Milano vincendo il premio per il miglior design innovativo. Alcune persone le vedevo sgranare gli occhi dalla corsia  e dirigersi verso il mio banco senza togliere lo sguardo dai “Plink” per capire cosa fossero. Ovviamente faccio anche gioielli con meno implicazioni concettuali e più spendibili!

Inoltre i suoi gioielli sono stati oggetto di varie mostre. Come e quando, secondo lei, un gioiello si trasforma da “semplice” accessorio in vera opera d’arte?
Non sono in grado di dire se sia possibile questa trasformazione. Ho avuto la possibilità di creare un pezzo ispirato a Klimt. Non potevo e non riuscivo a metterci dentro un mio pensiero perché la sua opera è ben definita concettualmente e non coincide con le mie idee. Potevo immedesimarmi in lui e cercare di fare un pezzo seguendo le sue di idee, ma mi sembrava un furto ideologico. Così, decisi semplicemente di reinterpretarlo. La collana “Horror Vacui”  è la quasi fedele riproduzione di un suo quadro, “il faggeto”. Qui ho cercato le tecniche e i materiali che rimandassero alla ricchezza del tappeto di foglie autunnali cadute nel sottobosco. Ecco, questo non lo considero un’opera, ma un bel pezzo di oreficeria. Io stessa divido i miei pezzi in “gioielli” e “opere”. Che siano d’arte non mi azzardo neanche a pensarlo, ho troppo rispetto per questa parola.