Kassim Yassin Saleh
01 Maggio 2019   •   Redazione

Kassim Yassin Saleh: il sogno di un regista dal Gibuti all’Italia

«La storia di Kassim Yassin Saleh è un inno alla speranza e alle cose belle che sono alla portata di tutti, se c’è la volontà di provarci. Essere determinato e tenace ha aiutato moltissimo Kassim nel suo cammino e oggi si racconta per lanciare il suo messaggio.»

In questa piccola intervista vi raccontiamo la storia di Kassim Yassin Saleh, il regista di Gibuti che voleva a tutti i costi il Canada. Il suo viaggio, però, gli ha riservato, un biglietto “solo andata” per Roma, dove Kassim si è fermato e si è formato, imparandone a conoscere i mille pregi e difetti. Insieme a lui siamo andati in profondità di Idris, tra i suoi lavori più riusciti e più apprezzati, da pubblico e critica.

Da Gibuti all’Italia: la storia di Kassim Yassin Saleh

Kassim Yassin Saleh, il tuo è un percorso che inizia in Africa, nel tuo Paese, il Gibuti, e che ti ha portato casualmente in Italia. Raccontami un po’ questa moderna Odissea.
Sono partito dal mio paese nel ’90, appena ventenne, decisi che era il momento giusto per spingersi oltre. Il mio intento era di raggiungere il Canada. Avevo degli amici sparsi un po’ per tutto il mondo. Ho scritto a tutti loro. Avevo anche dei contatti in Italia, ma speravo con tutto il cuore che loro non mi rispondessero.

Perché?
Perché la mia Itaca era il Canada e volevo raggiungere quel luogo ad ogni costo. L’Italia rappresentava il mio passe-partout per la mia destinazione finale.

E poi?
E poi…. ricordo ancora quella giornata all’aeroporto come se fosse ieri. Mia madre mi diede dei soldi e mi tagliò i capelli. Avevo un giubbotto di jeans. Avrei dovuto solo fare scalo a Roma, ma una serie di sfortunati – che oggi ritengo fortunati – eventi mi hanno portato a rimanere qui, in Italia.

Come sono stati i primi tempi di Kassim Yassin Saleh qui a Roma?
Terribili, mi sentivo perso. Ero solo un ragazzino. Arrivato a Roma ho dormito la prima notte nell’unico hotel che potevo permettermi con i pochi soldi che avevo a disposizione. Era a Termini ed era fatiscente. Successivamente ho dormito per strada, mangiato alla Caritas, lavorato nei cantieri e alla fine in un negozio in centro. Devo molto alla Chiesa, sono molto riconoscente. Nel frattempo avevo trovato anche una fidanzata italiana. Se fossi rimasto con lei, forse non avrei mai iniziato a fare cinema. La mia fortuna è arrivata un giorno, quando mi notò una fotografa.



Ti chiese di far parte di una campagna pubblicitaria, giusto?
Esatto. Mi notò nel negozio dove lavoravo. Da lì iniziai a lavorare come attore e ad avere piccole parti.

Cosa consiglieresti ad un giovane come al Kassim Yassin Saleh dell’epoca, a seguito delle esperienze vissute?
Di tenere duro e resistere, nella vita nulla accade per caso. Gli incontri non sono casuali. Le persone che entrano nella nostra vita sono lì ad indicarci una strada. Bisogna essere coraggiosi. Bisogna lottare. Allah è grande, bisogna avere fede. Roma adesso è casa mia, guai a chi me la tocca.

Se dovessi descrivere il tuo modo di far cinema e il tuo modo di comunicare, quali sono le parole che utilizzeresti?
Beh, indubbiamente ci sono delle parole chiave che ruotano intorno alla mia maniera di far cinema. Definirei il mio modo di comunicare abbastanza neorealista, intriso di umanità e a contatto con ogni tipo di religione.

Indubbiamente l’immagine è l’essenza prima di un prodotto cinematografico. Che rapporto hai con i direttori della fotografia con cui ti interfacci? Cosa ricerchi principalmente in questa figura?
Tra me e i direttori della fotografia con cui lavoro bisogna innanzitutto che si instauri un rapporto di stima e rispetto reciproco. Di solito lavoro con due, tre d.o.p., tutti dei gran professionisti, con i quali, nel tempo, è nata anche una bella amicizia. Ognuno di loro ha peculiarità diverse e un occhio che si adatta e dà quel je ne sais quoi in più al tipo di storia che voglio raccontare.

Tra i tuoi lavori, tra i più premiati e apprezzati, troviamo il cortometraggio Idris, in cui affronti una tematica molto attuale e particolarmente delicata. Perché hai deciso di utilizzare i bambini per raccontare l’immigrazione?
Mi piaceva l’idea di raccontarla attraverso la fragilità dei bambini. Loro sono indifesi. Con Idris non volevo fare il buonista, un bambino che scappa dall’Africa, la terra più bella del mondo, perde i propri cari e arriva in un paese straniero. È per lui un’esperienza devastante. Grazie alla sceneggiatura di Heidrun Schleef, che ha collaborato più volte con Nanni Moretti, ho  cercato di raccontare questo dramma e l’umanità che si cela dietro a questo tipo di vissuto. Anche gli altri bambini vivono grandi disagi e attraverso loro ho raccontato la difficoltà degli stessi ad accettare un nuovo membro del branco. Alla fine, però, Idris viene apprezzato: gli vengono riconosciute le sue capacità. I bambini capiscono di non essere soli nelle difficoltà e il senso di coesione sul finale mi riempie sempre il cuore ogni volta che riguardo il cortometraggio. Idris è uno dei lavori ai quali sono più affezionato. Ho voluto raccontare la diversità e per farlo ci siamo serviti della forza dei colori. Volevo fosse colorato come la mia Africa, e il d.o.p., con cui mi approcciavo per la prima volta, ha fatto un ottimo lavoro. Direi che mi ha fatto volare con la sua fotografia. Vedi, come ti dicevo prima, gli incontri non sono casuali. La sincronicità non è un concetto astratto.

La tua è una poetica intrisa di sensibilità. Nel tuo ultimo documentario, sull’artista Monsieur David, aleggia un’aria di incanto fiabesco che rimanda quasi ad un sogno bohemien. Perché hai deciso di utilizzare questo approccio per raccontare l’artista?
Il mio scopo era di raccontare la giornata dell’artista dal mattino fino allo spettacolo serale. Quasi tutta la narrazione ruota intorno al quartiere San Lorenzo di Roma. Ho giocato molto con l’interiorità, le sue paure e le sue verità. Un occhio attento noterà anche che ho sfruttato moltissimo la simbologia religiosa, mixandone diverse. Monsieur David, nel documentario, percorre la sua strada sentendo il legame con tutte le cose, ingoiando vite che non erano sue, per raggiungere la piena consapevolezza di sé. Sente la brezza del vento come una carezza sul volto e le risate dei bambini come linfa vitale. Ci racconta il suo universo personale dove l’amore, l’arte e la libertà riempiono ogni spazio.

Che importanza ha la religione nei tuoi lavori? E la donna?
Nei miei lavori la religione è onnipresente. Islam, cattolicesimo, ebraismo e tutte le altre. Io sono musulmano. Purtroppo si tende ad essere troppo fanatici ed io vorrei portare avanti il dialogo tra le religioni. Il mio è un messaggio di pace. Nelle mie opere gli elementi religiosi sono il mio marchio di fabbrica. A volte mi piace anche essere provocatorio, accostando immagini religiose ad altre che nessuno immaginerebbe mai di vedere. Ma lo faccio sempre con tanto rispetto. Per quanto riguarda la donna, provengo da un paese in cui la figura femminile è il fulcro di ogni cosa, una colonna portante nella vita. Le donne forti sono fondamentali nella vita sociale e familiare.

Chi sono le fonti della tua ispirazione? Qual è il cinema a cui ti rifai nei tuoi lavori?
Ritrovo l’ispirazione nei luoghi, nelle persone, nelle parole, nelle discussioni con chi ha un punto di vista diverso dal mio, nelle storie umane. Mi rifaccio molto a Pasolini, Farhadi, Spike lee, Fellini, Ken Loach e Garrone. La loro è una grande eredità che va diffusa e “salvata”.

Quali sono i progetti per il futuro di Kassim Yassin Saleh?
Ho in progetto una sceneggiatura con una protagonista femminile per un lungometraggio. Sarà un film corale. Una sorta di film appartenente ad un neorealismo 2.0, che voglio inaugurare. Per adesso non posso dirti altro, ma ho tante speranze ed aspettative. Ti dirò, ho anche un po’ di paura, ma Allah mi starà accanto.

Sono sicura, andrà bene.
Inshallah.

Carmen Bagalà

Immagine di copertina: http://www.cinemafrodiscendente.com/it/–17-special-day-black-italian-cinema/