22 Marzo 2017   •   Redazione

Dal blues al pop, le rivoluzioni musicali di Pino Daniele

«Mentre i cinema italiani trasmettono Il tempo resterà, docu-film su Pino Daniele, riscopriamo insieme il personaggio in un viaggio da Napoli agli States.»

È da due anni a questa parte che girando per i vicoli di Napoli una è la voce che si leva dalle radioline e dagli stereo sempre accesi, ed è quella di Pino Daniele (sito ufficiale). Dal giorno della sua morte la sua terra ha promosso un omaggio perpetuo, instancabile inno d’amore verso un’artista che ha saputo dire moltissimo di questa città così affascinante. Ma qual è il vero motivo di questo sentimento popolare che vibra in ogni quartiere di Napoli?

Pino Daniele è stato l’artefice della rivoluzione del napoletano, quella lingua prima di lui ingarbugliata tra i vicoli di una città difficile da raccontare senza cadere in luoghi comuni.

Stracciando la cartolina del Vesuvio che affaccia sul golfo, l’arte di Pino Daniele consisteva nell’incanalare nella musica quella sofferenza, quella malinconia tutta popolare verso un desiderio inappagabile, una fame che non sazia che lo ha felicemente tormentato sin da bambino. L’Appocundria. E lo ha fatto tramite un’esplosiva potenza verbale, quella che possiede il napoletano che lui rifiutava di tradurre, cantando parole che da sole sono capaci di raccontare squarci di realtà, misteri grandi, filosofie quotidiane. Perché quando il tempo cambia e inizia a piovigginare, ma piano piano, che c’è ancora il sole tra le nuvole, allora schizzichea.

E se in quel letto ti giri e rigiri ma il sonno non ne vuole sapere, la mente macina pensieri e no, non c’è niente da fare: quella è l’arteteca. Pino Daniele utilizza queste e tantissime altre parole del suo dialetto nella sua canzone che non rischia mai di cadere nel folklore, ma che al contrario conserva intatta una drammaticità autentica, una poesia che denuncia ironicamente, senza mai piangersi addosso ma anzi portando avanti il dissenso politico forte di una generazione di artisti. Tutto ciò mediante immagini efficaci e spassose, mai lontane dalla realtà ma anzi da essa attinte: Na Tazzulella ‘E Cafè è tra le canzoni di denuncia politica più potenti mai scritte da un cantautore italiano.

Quest’artista ha saputo così ridefinire la musica napoletana e con lei quella italiana, improvvisamente scossa da questo pastiche linguistico inspiegabile su un sound rivoluzionario, che sposa il blues dei neri americani all’Alleria meridionale, il jazz più raffinato alle armonie napoletane in un connubio irresistibile. Brani come Yes I Know My Way, Have You Seen My Shoes e su tutti Ferry Boat sono la prova che arrivati a un certo punto non si poteva più scegliere tra l’America e Napoli: bisognava fonderle.

Il risultato è esilarante: l’americano dall’accento napoletano di Uè Man! suonato da chitarristi del calibro di Robby Krieger (The Doors) e Phil Manzanera (Roxy Music) durante la Night of Guitars dell’87 appartiene alla storia della musica internazionale. Il Nero a Metà della musica italiana ha portato in giro per il mondo un dialetto finalmente sdoganato, passato dal sax di James Senese e dalle percussioni di Tullio De Piscopo fino ad arrivare alla chitarra di Eric Clapton, nel 2011 in concerto insieme a Cava de’ Tirreni.

Innumerevoli le collaborazioni intrecciate da Pino Daniele nel corso di una carriera che lo ha visto abbracciare la sua chitarra sui palchi più prestigiosi del mondo, nella costante predilezione per il sound mediterraneo e quindi africano, cantato insieme a Jovanotti e a Giorgia pensando al deserto e al vento d’Africa. Un lazzaro felice pieno di sottile cattiveria verso una realtà da denunciare, un risentimento dispettoso che la sua musica trasudava: a’ cazzimma. A pensarci bene, quel gigante buono dal falsetto facile non se n’è davvero andato. D’altronde, è lui stesso che cantandolo ce lo ricorderà sempre: I Say ‘I Sto Ccà.

Rita Sparano