Vinicio Capossela: il viaggio e le Canzoni della Cupa
«Il cantautore ha impiegato 13 anni per completare quello che è un viaggio musicale popolare dal sapore di Sud. “Canzoni della Cupa” è un doppio disco dai due lati, “Ombra” e “Polvere”, per un racconto folk di suggestioni ed immagini senza tempo»
Ho ascoltato per la prima volta questo disco in viaggio. La partenza da Lecce e l’arrivo a Roma, in mezzo cinque ore e mezzo o forse un po’ di più. In mezzo anche le 29 tracce di “Canzoni della cupa”, l’ultimo lavoro di Vinicio Capossela. Fuori il sole del sud creava, attraversando le foglie degli ulivi, giochi di luce e ombre frastagliate e repentine e guardando con attenzione in controluce, negli spicchi formati dai raggi luminosi, potevo vedere i puntini della polvere che così si manifestavano all’occhio nudo prima che si posassero sulle cose. “Polvere” e “Ombra” sono le due parti che compongono l’album, diviso in due dischi o meglio “lati”. I dettagli del mio viaggio iniziano a prendere consistenza e le esperienze sensoriali del momento un nuovo significato: vedevo quello che ascoltavo.
Il primo brano di “Polvere” riprende una canzone della tradizione salentina molto conosciuta: Femmine. Questo brano è l’inno delle donne lavoratrici dei campi, le “tabacchine”, è l’inno alla forza che dovevano avere e alla fatica (fatica che in dialetto salentino significa lavoro) che bisognava sopportare nelle coltivazioni di tabacco per portare a casa poco pane e pochi diritti. È la canzone ideale per aprire il sipario di fronte agli ascoltatori, per addentrarli in un panorama rurale, di folclore e anche di religione e superstizione. Un mondo dove le lancette dell’orologio scorrono più lente, dove ancora si rispettano i cicli della natura che insegna ad aver pazienza.
Anche lo stesso disco ha avuto una gestazione molto lunga, 13 anni. Capossela ha iniziato a registrarlo in Sardegna nel 2003, “una sessione scarna, disseccata, appunto. Due violini, un cymabalon, un contrabbasso e la voce accompagnata dalla sua chitarra” e, negli ultimi due anni, dopo aver completato anche la stesura del suo libro “Il paese dei coppoloni”, ha deciso di riprenderlo in mano e continuare a lavorarci su. Il tempo impiegato per questo lavoro sembra raccontare ciò che dal disco traspare, che di fatto, nasce dalla terra e ne rispetta i ritmi.
Alla riuscita hanno partecipato tantissimi artisti. Tra questi, sonorità di respiro internazionale come quelle di Flaco Jimenez, Calexico, Howe Gelb, Los Lobos, Victor Herrero, Los Mariachi Mezcal, Labis Xilouris e Albert Mihai e voci più vicine, quali Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Giovannangelo De Gennaro.
Il secondo disco, “Ombre”, è scritto interamente dal cantautore e racconta, con arrangiamenti di tradizione più caposseliana, storie dei bestiari della Cupa, vicende di mostri, figure mitologiche, misteri portati dall’oscurità. È “il lato lunare, il lato dello sterpo e dei fantasmi. Il lato degli ululati e dei rovi, dei rami che contro luna danno corpo alle creature che si fanno vedere da uno solo alla volta per sfuggire alla classificazione zoologica. Il lato delle creature della Cupa, del pumminale, del cane mannaro, della bestia nel grano. Il lato dei mulattieri che rubano legna la notte, il lato delle fughe d’amore. Il lato delle apparizioni”.
Si ritorna sempre a quella tradizione popolare che personifica le paura, la materializza in creature inesplicabili per darle consistenza e cacciarla, in qualche modo, da dentro se stessi. Un’autodifesa psicologica rudimentale che aveva il potere della condivisione nel gruppo e la robustezza dell’immaginazione.
Ma cos’è la Cupa? La cupa è il lato della rupe dove le cose stanno in ombra e dove le creature si nascondono dalla luce del sole. Nella tradizione dell’Alta Irpinia è la contrada buia dove si nasconde quell’essere oscuro, facilmente riconducibile al diavolo.
Capossela è un il viaggiatore instancabile che assorbe i contenuti dei posti che visita, ne coglie la storia e la cultura così profondamente da farla sua, da raccontarla poi in un suo originale modo che rimane, però, fedele alla conoscenza appresa. E così, anche questo lavoro è un viaggio, un viaggio nel sud; è folk dal sapore salentino, è un percorso nell’Irpinia musicale ed è anche Sardegna con il brano Componidori che racconta un rito di Cabras, la città sarda punto di origine de “Canzoni della Cupa”.
Il treno è l’ultimo brano del secondo disco. La ferrovia doveva essere il collegamento dei popoli, dei piccoli centri verso la grande città e viceversa. Invece il testo (e forse la realtà dei fatti) racconta di paesi svuotati, racconta di partenze senza ritorni per cercare una nuova fortuna anche se solo effimera:
quello che viene non è trovato
e se la vita mi viene addosso
con questo treno così la pena
così com’ero, restar non posso
quello che sono mi porto addosso.
A ritmo di questa musica, di questo testo, spaccando il sud Italia verso la capitale, vedevo dal sedile che occupavo i colori della terra cambiare e anche il mio viaggio in treno acquisiva un’altra accezione.
Elisa Toma