Gianni Berengo Gardin
07 Dicembre 2017   •   Carolina Attanasio

Gianni Berengo Gardin, una vita fotografata

«Gianni Berengo Gardin è uno dei più grandi fotografi viventi e uno storyteller senza precedenti della storia d’Italia, con un archivio fotografico lungo oltre 60 anni, su vite e paesaggi italiani.»

Arrivo al Leica Store di Piazza di Spagna col mio solito anticipo controllato, di giovedì mattina, per conoscere Gianni Berengo Gardin, in occasione del vernissage della mostra Il suo sguardo su Roma. L’occhiaia cronica e le poche ore di sonno alle spalle mi fanno sembrare la piccola folla radunata in attesa un oceano dalla fauna piuttosto variegata. L’hipster con la sua mirrorless a tracolla, c’è; il grandissimo appassionato che fa foto mediocri, c’è (rientro di diritto anche io in questa categoria); la signora bionda con l’attico a via del Babuino che entra saltando la fila, abbiamo anche lei; l’amico dell’amico del cugino dell’amico d’infanzia del fratello di Berengo, anche; e infine ci sono loro, i miei preferiti, i fotografi da una vita. Una categoria che riconosci a un miglio di distanza, hanno tutti i capelli bianchi spettinati, l’occhio molto piccolo o molto grande, lo sguardo curioso, la sciarpetta al collo e nessuna ruga verticale tra un sopracciglio e l’altro, perché mantenersi concentrati mentre si guarda nel mirino è un’arte che non lascia spazio a sguardi corrucciati.

Intravedo Gianni Berengo Gardin dalla vetrina, giacca invernale e fotocamera a portata di mano: è l’unico seduto, in mezzo al piccolo fiume di gente che gli ronza intorno, per un autografo e qualche domanda, lui pazientemente – dall’alto dei suoi 87 anni – firma tutto e risponde a tutti, anche alle domande più inutili.

Quando entro e giro l’angolo, i nostri sguardi s’incrociano per un secondo e pare che voglia mettermi a fuoco, ma dei due sono chiaramente solo io a riconoscere la faccia dell’altro. Ho il coraggio di fargli una foto, col cellulare, e mi sento come se avessi appena profanato la Bibbia, ascolto un signore accanto a me confessare all’amico lo stesso problema, «no, non glie la posso fà a faglie na foto cor telefono», non solo la sola paranoica, allora.

Berengo non scatta in digitale (mal si rapporta al suo bisogno di archiviare e stampare), mal sopporta Photoshop, è cresciuto a pane e Magnum Photography, è stato più volte accostato a Cartier-Bresson, ma rifiuta categoricamente il paragone con uno dei suoi miti, non ha mai smesso di fotografare dagli anni ’50, raccogliendo un archivio infinito che racconta la mutazione del paesaggio e della società italiana, dalla vita quotidiana al lavoro, dalle architetture al territorio. Non un artista, ma un reporter della società, uno che perfino quando ha fotografato dei baci (stupendi) non aveva un intento romantico ma civile, perché all’epoca in Italia era vietato baciarsi in pubblico e lui – arrivato a Parigi – si è visto sommerso dalle altrui effusioni e le ha fotografate, avido e curioso di immortalare vite proibite altrove.

Gianni Berengo Gardin seduto tra alcuni dei suoi scatti su Roma, che firma e risponde a tutti, ma la questione è: cosa puoi mai chiedere a uno che ha passato praticamente tutta la sua lunghissima vita a guardare dietro un obiettivo? La risposta è niente. Così divento il Freud della situazione e mi diverto a cogliere la sua espressione, mentre viene sommerso dall’altrui curiosità.

La foto che a te piace di più, lui l’ha scattata quasi per caso. Quella più famosa, a lui neanche piace troppo e non si spiega perché abbia avuto tanto successo. Cosa gli chiedi, se avrebbe voluto fare altro nella vita? A ottanta-sette-anni ti fulmina con lo sguardo e neanche te lo dice, la risposta è certochennò. Un impavido cinquantenne mi fa gelare il sangue, chiedendogli se non c’è più postproduzione di quanta ne dichiari, in una certa foto di Piazza di Spagna, e quante ne ha dovute scattare per ottenere quel risultato: altro sguardo fulmine, la risposta è che – se scatti con un rullino – non stai là a fare le prove come con i selfie.

Si avverte la responsabilità di quello che si sta scattando, mentre lo si scatta? Chiede lo Store Manager Gilberto Benni, e Berengo pensa che dipenda dal tasso di genuinità della foto, una commissionata da un editore non avrà mai il peso di una da reportage, per non dire di chi guarda la foto, il segreto è tutto lì. La cultura dello spettatore determina il successo o l’insuccesso di un’immagine, soggetta a interpretazione. L’oggetto della foto può essere banale o favoloso, interessante o inutile. La foto è negli occhi di chi la guarda, e di chi la fotografa. L’editore, questo mistero: anche per uno come Gianni Berengo Gardin è stato difficile, a volte, incontrare il favore delle case editrici, alcune descritte come “gente che pensa di produrre carta da gabinetto”: vita brevis, ars longa, come si suol dire.

La fotografia è occhio, e questo lo sappiamo. Non è nobile come tante altre arti, magari, ma ha il potere di raccontare la realtà oggettiva e quella soggettiva allo stesso tempo, per non parlare di quel cogliere un microsecondo che non esisterà mai più allo stesso modo.

Cosa puoi chiedere a uno dei più grandi fotografi della sua generazione? Tutto quello che puoi fare è goderti la possibilità di avere lui e le sue foto nella stessa stanza, guardare le immagini, poi guardare lui, e avere una specie di visione su quel giorno in cui ha scattato e trovare un punto d’incontro tra quello che ha visto lui e quello che vedi tu ora. A che serve chiedere, quando l’immagine parla?

 

Carolina Attanasio