03 Febbraio 2017   •   Snap Italy

Silvio Orlando porta in scena “Lacci” di Domenico Starnone

«Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie»

Una casa fatta a pezzi, i cocci di un matrimonio di porcellana sparsi sul pavimento come i ricordi di una vita insieme. Ora che tutto è distrutto, non si può fare altro che liberarsi del superfluo, scrollarsi di dosso i detriti del passato e ricominciare a vivere ripartendo dal punto di partenza, là dove tutto è iniziato. Aldo (Silvio Orlando) e Vanda (Vanessa Scalera) si sono sposati giovani all’inizio degli anni Sessanta, per desiderio di indipendenza, ma poi attorno a loro il mondo è cambiato, e a trent’anni si sono ritrovati genitori di due bambini, in un momento in cui la famiglia è diventato un segno di arretratezza più che di autonomia. Ed è proprio allora che Aldo, stritolato dai lacci della responsabilità, è scappato a Roma per correre dietro una gonnella più giovane, Lidia, e vivere la leggerezza che la famiglia gli stava negando.

Vanda intanto è rimasta con i figli a Napoli in attesa di un ritorno, di un ripensamento, ma niente. A nulla sono serviti i fiumi di lettere, le preghiere e le minacce, Aldo li ha guardati da lontano per quattro anni, fino a che all’improvviso quegli stessi lacci che gli toglievano il respiro gli hanno ricordato che non si può essere un padre a intermittenza e lo hanno riportato a casa.

Ma cosa accade quando si ritorna sui propri passi dopo aver osato inseguire la propria felicità? Quando si incollano i cocci a forza, cercando di ricomporre i frammenti di un quadretto familiare che non ha più ragione di esistere? Talvolta quello che sembra un bene, diventa un male peggiore, e così è per Aldo, che dal giorno del suo ritorno fino all’ultimo della sua vita è condannato a scontare il suo debito d’amore con la moglie, che gli ha strappato la spina dorsale in cambio di un posto nel suo letto. Ma d’altra parte qualunque cosa faccia l’essere umano finisce per ferire qualcuno, per fare della propria felicità, l’infelicità di qualcun altro.

Lacci, diretto da Armando Pugliese da un’opera di Domenico Starnone, non è un lezione morale ma una ballata dolorosa su una famiglia, che ha barattato la passione per la pace dei sensi, i colori della vita per un grigio scialbo, che ha ricoperto la loro casa come le ceneri di un’esplosione. Lo stesso grigio esistenziale ha avvolto Aldo dal momento in cui è tornato, riducendolo al fantasma di ciò che era,  a scapito dei figli, che hanno percepito il suo gesto come un atto di resa piuttosto che come un atto d’amore. E ora che sono genitori a loro volta non riescono a scrollarsi di dosso gli errori di chi li ha generati. Il loro punto di vista si unisce in questo romanzo polifonico a quello dei loro genitori e di un vicino di casa, che da anni li osserva dall’esterno, con l’unico scopo di mostrare tutte le facce della realtà senza prediligerne nessuna.

Le parole sono le uniche armi a disposizione dei personaggi del dramma, i dardi che si tirano addosso per rinfacciarsi gli errori del passato e creare spunti di lotta nel presente. Vanessa in particolare è la più agguerrita, la leonessa che combatte per difendere i suoi cuccioli da un padre debole, assente, votato al silenzio. Aldo infatti è quello che più di tutti subisce gli attacchi senza restituirli, il bersaglio mobile che per pochi anni da leone si è meritato un’esistenza da pecora. E Silvio Orlando asseconda alla perfezione il suo temperamento, un fuoco che arde sotto la cenere apparente, e che brucia in segreto, senza che nessuno se ne accorga. Sotto l’aspetto del padre di famiglia sottomesso, batte il cuore di un uomo che brucia di passione per una donna che non è sua moglie, e sogna di fuggire via da tutto senza guardarsi indietro.

Non è dato sapersi chi è la vittima e chi il carnefice, solo che il male si annida proprio là dove dovrebbe germogliare l’amore e, alla fine di tutto, dopo il tradimento, la frustrazione, la sconfitta e il perdono,  quello che resta non è altro che il rimpianto di una vita non vissuta, chiuso a doppia mandata negli anfratti più oscuri della coscienza.

Valeria Brucoli